lunedì 20 febbraio 2012

Max Scheler e il Dio in divenire: San Francesco e la sconfitta di Marcione (2002)



Nell'immagine: San Francesco spogliandosi si veste d'esemplarità 

San Francesco e la sconfitta di Marcione

San Francesco, Marcione, Harnack, Scheler



La versione completa di questo testo è presente in: G. Cusinato, Scheler. Il Dio in divenire, Padova 2002, pp. 137-140.

 


 Il libro di Harnack su Marcione

 Oltre a Schelling v’è un’ulteriore fonte che ha influenzato la riflessione scheleriana relativa al problema del «Dio in divenire»: il libro di Adolf von Harnack su Marcione. Di esso sappiamo che esce nel 1921 con il titolo: Marcion: Das Evangelium vom fremden Gott, e che Scheler lo cita già nel 1922[i]. La mia tesi è che la lettura di questo testo e il confronto con Marcione costringano Scheler a una netta presa di posizione nei confronti del problema del rapporto fra Dio e il male. Scheler, come cercherò di mettere in luce, è un avversario di Marcione, tuttavia prende sul serio molte delle problematiche che Marcione aveva sollevato. In primo luogo quelle che descrivono il Dio dell’amore, non ancora onnipotente e compiuto: il Dio del futuro. È solo in questo contesto che Scheler può affermare in un appunto non destinato alle stampe: «O Dio! Solo da questo momento io riesco veramente ad amarti e ad adorarti in modo puro: da quando ho scoperto che non è tua la paternità e la responsabilità per l’esistenza materiale e il divenire di questo mondo»[ii].
La tesi scheleriana del «Dio in divenire» può essere allora letta come un tentativo di superare e contrastare la contrapposizione che Marcione pone fra il Demiurgo che ha creato il mondo e il Dio che redime l’uomo, fra il Dio che è nel male e il Dio che innalza dal male, fra il Dio che rappresenta la giustizia risentita «dell’occhio per occhio, dente per dente» e il Dio che è agape e perdono, fra il Dio dell’Antico e il Dio del Nuovo Testamento. Invece la rivalutazione della natura e della teoria platonica dell’eros, che Scheler sviluppa con particolare impegno a partire da Essenza e forme della simpatia, può essere vista come una sana reazione alla sconvolgente e allucinante condanna che Marcione rovescia nei confronti dell’atto creativo e di ogni forza vitale.
Ma lasciamo parlare Harnack. Marcione è una delle figure chiave per comprendere la storia del cristianesimo: i Padri della chiesa non sarebbero riusciti infatti a confutare completamente Marcione, anzi proprio attraverso le loro critiche tesi fondamentali di questa eresia si sarebbero diffuse e sarebbero state fatte proprie dal cristianesimo. L’ipotesi di Marcione parte da una riflessione: nell’Antico Testamento si parla di creazione, nel Nuovo di redenzione; nel primo si parla di legge, nel secondo di grazia. Le conclusioni a cui arriva Marcione sono estreme: il Dio del Nuovo testamento è un Dio diverso da quello dell’Antico Testamento, è il Dio buono, quello che ha inviato sulla terra Gesù per salvarci dalle miserie di questo mondo. Ad esso si contrappone il Dio dell’Antico Testamento, il Dio che ha creato il mondo ed è responsabile del male che in esso regna.
Tutti temi destinati ad aver profonde conseguenze sul pensiero di Scheler. Marcione – afferma Harnack – dipinge il Dio creatore come un Dio onnipotente che non è stato capace di autocontrollarsi, che soprattutto non sa dell’altro Dio e si è trasformato in un despota che regna imponendo la sua legge come giustizia puramente formale: «voluntas regis suprema lex». Dove traspare la malizia di questo Dio? Nel fatto che ha creato l’uomo debole, soggetto al peccato, alle malattie, ecc.. Nel fatto che lo induce continuamente in tentazione per poi infliggergli una serie infinita di condanne e punizioni, nel fatto che le colpe dei padri ricadono sui figli, che l’innocente soffre al posto del colpevole, che la storia dell’uomo è disseminata di guerra e di ogni sorta di violenze.[iii]
Il Dio creatore – prosegue Harnack – è secondo Marcione il Dio senza misteri: la sua natura inferiore risulta chiaramente riconoscibile dalla sua opera. Certo il culmine della creazione è anche per Marcione l’uomo, ma qui non si può propriamente parlare di un’opera che corona un atto riuscito: la creazione dell’uomo è piuttosto una misera tragedia. Questo Dio ha creato l’uomo infondendogli nell’anima la propria sostanza, ma tale sostanza non solo si rivela imperfetta, essa viene addirittura mescolata con la carne: così per colpa di una creazione difettosa nasce l’uomo come essere manchevole.
Ma quello che non può non aver colpito Scheler è il disprezzo isterico nei confronti dello stesso atto generativo dell’uomo: l’uomo nasce come conseguenza di un atto immondo, di un «negotium impudicitiae» che lo fa fluire nel grembo materno e poi lì lo nutre per nove mesi.[iv] Qui l’atto sessuale diventa immorale specialmente se è diretto alla procreazione. E il perché è chiaro: per Marcione l’uomo ha la possibilità di redimersi solo sabotando e contrastando ogni forma di forza generativa che porta a rafforzare il mondo. La salvezza va ottenuta accelerando la fine del mondo, impedendo con ogni mezzo la rigenerazione e lo sviluppo della natura. L’ascesi è allora intesa come un ritirarsi dal mondo, un prendere le distanze da esso attraverso una grazia che proviene liberamente dal Dio buono.


Da Marcione a Francesco


Scheler raccoglie da Marcione alcuni spunti: nell’idea di un Dio che diviene, di un Dio che non è ancora compiuto si riflette forse qualcosa di quel Dio buono di cui parlava Marcione: un Dio che ancora non è, un Dio che non è responsabile dei mali di questo mondo. Ma proprio la tesi del «Dio in divenire» mette radicalmente in discussione l’impostazione di Marcione. Qui non si tratta solo di negare l’esistenza di due divinità, riaffermando un unico Dio, ma di unificare nel divenire di questo unico Dio qualcosa che per Marcione rimaneva assolutamente inconciliabile.
Questo cambiamento di prospettiva avviene grazie a una completa rivalutazione dell’atto creativo e della sua opera: il mondo. Ma rivalutare il mondo per Scheler significa vedere nella fecondità della natura non il segno di un Dio malvagio, quanto il riflesso di un incoraggiamento agapico. Da questo punto di vista la tesi del Dio in divenire viene preparata e anticipata da quella importante operazione che Scheler compie nel 1922, volta a far convergere i due momenti, generalmente contrapposti, dell’eros e dell’agape.
Basta leggere la definizione che Scheler dà di agape per mettere da parte ogni equivoco e rendersi subito conto della distanza abissale che intercorre fra Marcione e Scheler: «agape è il dire di sì al mondo e all’ens a se, il dire di sì all’essere in tutti i suoi aspetti, anche all’essere reale e alla sofferenza nella resistenza del reale»[v]. Il riferimento diretto di questa definizione non è il Nuovo Testamento[vi]. A chi pensa Scheler?
Nel cristianesimo è presente una tendenza volta a contrapporre eros e agape, a interpretare l’atteggiamento fondamentale dell’uomo nei confronti del mondo attraverso il concetto di angoscia. Questa tendenza ha storicamente una delle sue fonti principali proprio in Marcione. E che Marcione continui a rimanere presente all’interno del cristianesimo esercitando un influsso rilevante, viene sottolineato non solo da Harnack, ma anche da molti altri. Più recentemente è stato Taubes a ritornare su questa questione riprendendo anche un altro punto sottolineato da Harnack: quello del rapporto fra Marcione e la teologia di Paolo. Marcione, nota Taubes, ha estremizzato le differenze che Paolo individua tra Antico e Nuovo Testamento, tuttavia se non ha capito Paolo non lo ha neppure completamente frainteso[vii]. E in ogni caso quella componente nichilistica, così efficacemente descritta da Harnack, continua a tentare la storia del cristianesimo.
Si tratta di un ragionamento che funziona, tuttavia in questo ragionamento di Taubes manca una figura importante: Francesco. Ebbene nel 1922, proprio l’anno in cui Scheler legge le pagine di Harnack su Marcione, Scheler dà alle stampe la seconda edizione di Essenza e Forme della Simpatia, aggiungendo fra l’altro alcune importantissime pagine in cui dipinge Francesco come colui che ha salvato il cristianesimo dalle estremizzazioni della teologia di Paolo. E qual è per Scheler il centro della controversia? La svalutazione del mondo. La vera confutazione di Marcione non avviene a opera dei Padri della chiesa, ma a opera di Francesco.
Nella teologia di Paolo non viene neutralizzato il rischio di una esaltazione unilaterale dell’«amore acosmico» capace di condurre a una completa desacralizzazione della natura. Dove desacralizzare la natura significa metterla incondizionatamente a disposizione della volontà di dominio dell’uomo: «Nella misura in cui l’uomo si sente drasticamente al di fuori della natura [...] e raccoglie tutte insieme le forze che si vanno liberando nell’atto della unipatia in Cristo, quell’atto che a cominciare da Paolo è guidato dall’amore acosmico per Gesù Cristo, [...] la natura diventa in linea di principio un oggetto privo di vita, sottoposto al dominio della volontà spirituale dell’uomo»[viii].
Tale sdivinizzazione della natura priva la natura di ogni valore e di ogni diritto, e la separa dall’atto creativo: solo l’uomo ha diritti. Ma tale incapacità di conservare un atteggiamento etico nei confronti della natura finisce con lo strumentalizzare la stessa elevazione dell’uomo: l’uomo considerandosi immagine di Dio pensa di aver il diritto di dominare illimitatamente sul creato, così come Dio stesso. Tuttavia il dominio dell’uomo sulla natura diventa un dominio di tipo tecnologico, ed è proprio la forma di tale dominio che finisce per diventare il canone attraverso cui viene ricostruita la stessa immagine di Dio. Il risultato non può che essere una catastrofe: la volontà del soggetto umano trasferisce tutta la sacralità della natura in un Dio completamente trascendente, ma dopo aver assunto il dominio completo sulla natura identifica Dio con tale onnipotenza, oppure semplicemente si dimentica di Dio, o lo neutralizza.
Nell’assolutizzazione unilaterale dell’amore acosmico «si verifica un’enorme devitalizzazione e disanimazione dell’intera natura [...] che portò per secoli – fino al movimento francescano [...] – a bollare come pagana ogni tipo di unipatia con la natura»[ix]. Soltanto nell’essenza e nella storia dei misteri e dei sacramenti cristiani – prosegue Scheler – è rimasta una qualche remota traccia di un contatto fra il divino e la natura, e precisamente nell’identificazione del corpo e del sangue del Signore con il pane e il vino. «Fino al movimento francescano...»: è solo con Francesco che il cristianesimo riesce a parlare di amore verso la natura senza ricadere nel paganesimo.
Mentre un amore acosmico inteso in modo unilaterale apre le porte alla tesi dell’onnipotenza creazionista del soggetto, l’unipatia cosmica era infatti da sempre sfociata nelle varie forme di panteismo e di naturalismo. Sotto questo aspetto, nota Scheler, Francesco non ha nessun precursore in tutta la storia cristiana dell’occidente. «Ciò che più ci colpisce – anche occupandoci solo superficialmente di Francesco d’Assisi e delle sue orme terrene – è il fatto che egli chiami fratelli e sorelle anche il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, così come animali e piante d’ogni specie. È il fatto che egli attuasse un’espansione della mozione specificamente cristiana dell’amore di Dio come Padre, dell’amore fraterno e dell’amore del prossimo “in” Dio, a tutta la natura infraumana, e che al contempo attuasse, o sembrasse attuare, un’elevazione della natura alla luce e allo splendore del sovrannaturale»[x].
Per Scheler Francesco salva il cristianesimo perché è in grado di far convergere «amore acosmico» e «unipatia cosmica», «vitalizzazione dello spirito» e «spiritualizzazione della vita», riuscendo a concretizzare nella propria esistenza e azione l’unione stessa di questi due momenti. Ma se la provenienza dell’amore acosmico è individuabile nel cristianesimo, qual è l’origine di questo atto d’unipatia cosmica? Per Scheler non ci sono dubbi: esso ha origine nella teoria platonica dell’eros.


Il pan-enteismo e la sacralità della natura


Nell’eros si realizza una fusione emotiva e carnale proprio con quella forza vitale generativa che Marcione voleva combattere a tutti i costi, e tale unione si realizza nella forma di un’estasi dionisiaca, che portata fino alle estreme conseguenze ripiomberebbe l’uomo in quella identificazione nella natura da cui si era faticosamente emancipato all’origine del proprio divenir unomo. Nell’amore acosmico si apre invece la strada a un’estraneazione dalla natura che in epoca moderna si è unilateralizzata nel tentativo di cancellare ogni residuo di sacralità dalla natura in modo da poterla poi ridurre a puro oggetto, a meccanismo inanimato.
La partecipazione alla natura a cui pensa Scheler, sulle orme di Francesco, vuole essere qualcosa di profondamente diverso. Vuole essere partecipazione a quella corrente vitale tanto demonizzata da Marcione, ma non nel senso di una fusione dionisiaca: attraverso l’atto agapico la partecipazione viene per così dire “trattenuta” e non cade nella fusione. Tale partecipazione non avviene più a livello del centro vitale quanto del centro personale: la persona nell’atto di partecipare conservata una propria identità e una distanza, una distanza resa possibile dalla presenza di un’agape dietro a cui emerge la rivendicazione di un Dio che trascende la natura. Una tale partecipazione non ha più nulla a che fare allora con le varie forme del contagio affettivo, dell’ipnosi, della fusione vitale, ecc., perché non si pone più sul livello psicologico: il senso di questa partecipazione è piuttosto quello dell’«apertura al mondo».
Attraverso questa compenetrazione fra eros e agape l’uomo è dunque in grado di considerare la natura eticamente, di assumere una responsabilità nei suoi confronti, di riconoscere in essa un momento di sacralità che automaticamente le conferisce dignità, e questo senza ricadere nel panteismo. In Essenza e forme della simpatia Scheler, per designare questa posizione che riconduce a Francesco, usa il termine di «panenteismo». Un termine spesso confuso con quello di «panteismo» (addirittura anche nelle traduzioni). Con esso invece Scheler intende contrapporsi al panteismo, e cioè all’identificazione fra Dio e natura naturans, affermando che Dio è parzialmente immanente ma anche parzialmente trascendente la natura. Uno sviluppo di questa concezione panenteistica è rintracciabile in Moltmann.



[i] Nel Nachlass di Scheler rintracciabile sotto ANA 315, CA IX, 37.
[ii] GW XII, p. 235.
[iii] Per un’interpretazione del concetto scheleriano di agape in riferimento al Nuovo Testamento cfr. § 6.5.
[iv] J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, München 1993, p. 82.
[v] GW VII, pp. 94-95.
[vi] GW VII, p. 95
[vii] GW VII, p. 97.
[viii] Un’esplicita negazione della creatio ex nihilo è espressa ad es. in GW IX, p. 101. Su questo punto mi permetto di rinviare al mio lavoro Katharsis, Napoli 1999, p. 369.



[i] Cfr. GW VI, p. 93.
[ii] GW XV, p. 182.
[iii] Harnack, cit., p. 141.
[iv] Harnack, op. cit., 145.
[v] GW XII, p. 235.
[vi] Per un’interpretazione del concetto scheleriano di agape in riferimento al Nuovo Testamento cfr. § 6.5.
[vii] J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, München 1993, p. 82.
[viii] GW VII, pp. 94-95.
[ix] GW VII, p. 95
[x] GW VII, p. 97.

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