lunedì 30 gennaio 2012

La Totalità incompiuta: l'atto come cellula della persona

Osservazioni su: G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli Milano 2008, p. 336.



 Recensioni on-line al libro:

Recensioni su rivista:
1) A. Vigorelli: in: «Rivista di Storia della Filosofia» 3/2009, pp. 646-648
2) A. Michelis: in: «Filosofia e teologia»3/2011, pp. 668-670.

Ampie sintesi on-line del volume sono rintracciabili in:


 La persona nasce una prima volta metabolizzando funzioni psichiche in atti (l'atto è la cellula della persona), ma poi nasce una seconda volta nella misura in cui co-esegue gli atti metabolizzati (la co-esecuzione dell'atto è un passo, un tassello nel processo di tras-formazione dell’identità personale). Nel primo caso l’atto è il punto di arrivo del primo livello d'individualizzazione, nel secondo è il punto di partenza del secondo livello d'individualizzazione, quello che dà origine a un nuovo inizio. Ne consegue che la persona non è affatto la semplice successione dei suoi atti, o qualcosa che permane identico nella successione degli atti, ma piuttosto la co-esecuzione dei suoi atti.

Qui di seguito riporto l'Introduzione (pp. 11-14):  

Introduzione
 Che cos’è una persona? Come si costituisce concretamente l’identità personale ? Che rapporto c’è fra identità personale e identità psichica ? C’è coincidenza fra persona e homo sapiens ? La persona è ancora oggi, nonostante tutto, al centro del dibattito filosofico, sociologico, giuridico e bioetico, eppure la dimensione ontologica della persona, immersa in un’ambiguità di fondo [1] , sembra sfuggire continuamente alle reti concettuali costruite dalle più svariate teorie.
Per affrontare questi problemi propongo un’ontologia della persona come compimento dell’antropologia filosofica. L’antropologia filosofica nasce nella Germania degli anni Venti in un periodo “fluido” in cui l’eclissi delle tradizionali concezioni dell’uomo non aveva ancora lasciato il posto alla cristallizzazione totalitaria dell’uomo di massa che si sarebbe imposta negli anni Trenta. Mai prima d’ora, poteva ancora affermare Max Scheler nel 1926, l’uomo è risultato così drammaticamente enigmatico a se stesso, eppure tale epoca è anche la prima in cui l’uomo, socraticamente, sa di non sapere chi è. L’antropologia filosofica era dunque originariamente vissuta come una grande occasione  per relativizzare tutti i tentativi volti a consegnare l’uomo a una definizione fissa, restituendo così l’enigmaticità dell’uomo in tutta la sua complessità. Sempre nel 1926, Scheler osserva che l’enorme mole di dati raccolti dalle scienze biologiche, dalla fisiologia, dalla medicina e dalla psicologia hanno reso l’uomo, se possibile, ancora più misterioso a se stesso: più conosciamo l’uomo, come oggetto di discipline specialistiche, e tanto meno lo comprendiamo nella sua totalità.
Si tratta di cogliere l’enigma dell’uomo, ma a partire da una categoria dinatura e di vita che non coincide più con quella della scienza positivista. Heidegger seguirà inizialmente una strada diversa, partendo da un Dasein per più versi pensabile rigorosamente solo nei confini della lingua tedesca, e che, ponendo preliminarmente la questione ontologica, intanto spoglia l’uomo dalle dimensioni della corporeità, dell’erotismo, dell’unicità individuale, dell’apertura al mondo, ma senza la garanzia di poterle poi adeguatamente recuperare nei passaggi successivi.
Nel porre la questione dell’uomo in riferimento alla categoria di vita,l’antropologia filosofica non ricade nel biologismo, dimenticando così la differenza ontologica, ma piuttosto cerca di ricomprenderla concretamente a partire dall’atto, decisivo, del superamento di quella chiusura ambientale di von Uexküll, a cui successivamente Heidegger stesso presterà molta attenzione. Da qui l’importanza d’indagare, meglio di quanto si sia fatto finora, i radicamenti dell’antropologia filosofica nella discussione che dal concetto di auto-organizzazione, genialmente elaborato da Kant nella Critica del giudizio, arriva fino alla teoria dell’organismo di Schelling come «schema della libertà» e alla teoria della Stufenfolge dell’autoregolazione (o “centricità”) dei diversi sistemi viventi. Tematiche che attraversano anche l’antropologia filosofica di Scheler e Plessner e che si ramificano poi in direzione della nuova teoria dei sistemi, quella che con Maturana e Varela definisce l’organismo in senso autopoietico. Fare i conti con questi risultati significa chiedersi se l’uomo stesso sia o meno un sistema autopoietico.
L’antropologia filosofica del XX secolo ha cercato di definire l’uomo in riferimento a una instabilità biologica che lo porta a trasformare il proprio corpo (la teoria del cybor di Alsberg) oppure il proprio ambiente (Gehlen). E se invece l’uomo fosse l’essere che si caratterizza per dare alla luce una nuova forma di esistenza? Come comprendere altrimenti il passaggio dalla centricità – che caratterizza la sfera biologica (compreso l’Io soggetto della coscienza razionale) – all’ex-centricità della persona? Come comprendere altrimenti il rapporto fra l’eccedenza dionisiaca di Nietzsche e l’eccedenza agapica di Scheler? Mentre l’eccedenza dionisiaca dà ancora forma all’immaginazione del soggetto, l’eccedenza agapica risulta irriducibile a uno schema proiettivo anticipante ed è già volta a far spazio, in un centro personale, all’emergere di una novità positiva (cfr. p. 206). L’eccedenza agapica si presenta come un caso di creatività esemplare.
Rispetto a queste problematiche l’antropologia filosofica di Scheler si presenta eccessivamente sbilanciata sul concetto di spirito (Geist), con il risultato di venir recepita come una protuberanza metafisica e teomorfica. Certo si tratta d’interpretazioni di comodo, ma alla base di questo mio lavoro vi è anche la convinzione che non sia più sufficiente limitarsi a correggere e migliorare l’antropologia filosofica del Geist. Più promettenti sono eventualmente le riflessioni di Scheler sui concetti di Vorbild (guida) e diBildung (formazione). È attraverso una nuova antropologia filosofica dellaBildung che sarà possibile cogliere il problema della persona come l’essere che, essendo privo di un’essenza predefinita, è costretto a formarsi e quindi a nascere una seconda volta.
Ciò che si sta verificando nell’attuale società, immersa nella liquidità postmoderna, è proprio un arresto di tale processo di formazione: qui l’uomo ritorna indietro e assolutizza la propria fissità autoreferenziale. Da questa posizione di autosufficienza discende quella mancanza di ritegno – conseguente alla forbice sempre maggiore fra consapevolezza dei propri limiti e mezzi tecnici a disposizione – che contraddistingue le scelte dell’uomo attuale. Certe forme di ingegneria genetica e l’applicazione delneuromarketing alla manipolazione dell’opinione pubblica diventano così la comoda alternativa al difficile processo di formazione della persona. Se l’uomo è l’essere che nasce come totalità incompiuta, il pericolo è che, in mancanza di adeguati spazi di formazione, il compito di plasmarlo venga assunto da qualcun altro: ieri l’ideale ascetico e oggi l’allevamento mediatico di massa. Se questa è la minaccia, allora l’antropologia filosofica va ripensata in direzione della formazione degli strati affettivi della persona (cfr. pp. 103-120), magari sondando anche possibili convergenze con le tematiche sollevate dalla cura sui di Pierre Hadot o dalle tecnologie del sé dell’ultimo Foucault. 
Perché allora “ontologia della persona” e non semplicemente “fenomenologia della persona”? Il problema è che da Locke fino alla bioetica di Singer e Engelhardt ha dominato una generica indistinzione fra Io e persona. Un’indistinzione che da un lato è funzionale all’atrofizzazione del processo di formazione, dall’altro ripropone una barriera ostracizzante fra persone e non persone. Per questo non è possibile partire da una semplice descrizione di come si dà la persona nell’esperienza comune, ma è necessario individuare una tesi forte, capace di dar conto di come una persona si costituisca ontologicamente in modo diverso dall’Io .
La proposta è quella di partire dalla relazione fra atto e persona: gli atti sono le “cellule” metabolizzate dall’ordo amoris della persona. La persona metabolizza le funzioni psichiche in atti, ma poi nel rapportarsi ai propri atti inaugurerà qualcosa di ontologicamente imprevisto e che distingue la persona da tutti gli altri enti: essa si svela un ente ontologicamente innovativo che dà origine a una nuova forma di esistenza. Ogni atto è un tassello del percorso di rinascita tracciato dal divenir-persona. Questo perché l’atto non viene eseguito (come invece accade per un’azione o una funzione psichica), ma per l’appunto co-eseguito. In altri termini nella co-esecuzione la persona non auto-organizza gli atti autopoieticamente, ma li organizza “compartecipativamente” [2] .
Nella compartecipazione la persona si svela una totalità incompiuta che, in quanto tale, ha bisogno d’inaugurare un processo formativo facendosi contagiare dall’esemplarità. Nell’esemplarità altrui è individuabile la matrice generativa di un processo formativo particolarmente riuscito, quindi di un’esperienza nuova che posso creativamente fare anche mia (cfr. p. 208). Incompiutezza ed esemplarità sono ciò che differenzia la persona dall’Io. Dietro la persona non c’è un’essenza compiuta, ma un moto espressivo, cioè una matrice  generativa del percorso ontologico con cui una determinata persona è riuscita a esprimersi nell’atto (cfr. “principio di espressività”).L’“essenza”  della persona è perfetta nella misura in cui è incompiuta.L’incompiutezza , lungi dal rappresentare una mancanza, indica la capacità di mantenere aperto uno spazio innanzi. La persona è una “totalità incompiuta ” che deriva la propria perfezione dall’essere sempre aperta a un ulteriore possibile compimento compartecipativo  (cfr. “principio d’identità compartecipativa ” ).
Un’essenza compiuta sarebbe invece vissuta dalla persona come una gabbia o una barriera statica. Nella misura in cui la persona finita si posiziona come “totalità compiuta”  tronca ogni rapporto con la dimensione compartecipativa e ricade nella logica egocentrica. La persona è in definitiva un grande riconvertitore di energie psichiche in energie compartecipative e quindi una risorsa fondamentale per tentare d’impostare un nuovo modo di risolvere i conflitti e di rapportarsi alla natura, una volta che la logica centrica sia arrivata al capolinea.
Se dimentico tutto ciò, proprio nell’istante in cui faccio riferimento alla persona sarò subito tentato di tracciare una discriminazione nei confronti della non-persona, magari ricadendo nell’opposizione giuridica fra persona e cosa. Un’opposizione inaccettabile, non solo perché i confini tracciati di volta in volta dal diritto rimangono storicamente mutevoli e incerti, ma soprattutto perché va contro il senso stesso della persona, che non è quello di accentrare diritti, quanto di promuoverli compartecipativamente oltre se stessa, riconoscendo quale non-cosa tutto ciò che la circonda e quindi sviluppando un’etica della responsabilità nei confronti degli altri esseri viventi e della natura.

 Note
 [1] Tale ambiguità è già presente etimologicamente nel termine greco “prosopon”, che indica innanzitutto il “volto” dell’individuo, ma anche la “maschera” dell’attore teatrale. Quest’ultimo significato diventa preminente nel termine latino “persona”. Tuttavia non bisogna dimenticare che nella tradizione cristiana emerge anche un diverso senso a partire dalla discussione sul mistero trinitario: sia Tertulliano che Agostino utilizzano “persona” per tradurre il greco hypostasis: «una sostanza (ousia), tre persone (hypostaseis)».  
[2] I rapporti “partecipativi” si sviluppano entro canali prestabiliti riferendosi a un “modello”, mentre quelli “compartecipativi” si possono esprimere creativamente facendosi contagiare da una “esemplarità”. Per usare una metafora visiva è come quando la luce rimane catturata entro una fibra ottica oppure quando può diffondersi liberamente nell’ambiente. Ho qui presente la nota distinzione fra “radiazione” e “illuminazione” proposta da J. Gibson  (cfr. J. Gibson , Un approccio ecologico alla percezione visiva , Bologna 1999, 97-104).


Ulteriori osservazioni:

L’atto come cellula della totalità incompiuta
 H. Jonas parla dell’organismo come di una “sorpresa ontologica”, di una entità ontologicamente nuova rispetto al mondo inorganico. Per comprendere in che modo la persona sia una “sorpresa ontologica” rispetto all’organismo è utile rifarsi ai risultati che le scienze biologiche hanno raggiunto relativamente allo studio dell’organismo stesso, questi ruotano attorno al concetto fondamentale di metabolismo. Un tentativo di ripensare filosoficamente il metabolismo venne compiuto fra gli anni cinquanta e sessanta da H. Jonas, ma a mio avviso è più approfondita e rilevante la riflessione avviata su questo punto successivamente con la nuova teoria dei sistemi da Luhmann e Maturana. La nuova teoria dei sistemi ha dimostrato che un organismo è tale in quanto è un sistema aperto a uno scambio continuo con l’ambiente. Ma attenzione: dall’ambiente importa direttamente solo i materiali di base e le energie che la chiusura operativa del sistema metabolizza successivamente negli elementi costitutivi dell’organismo.  Non importa cioè le cellule e i “pezzi di ricambio” già strutturati, ma ciò che serve per metabolizzarli. Nel metabolizzarli imprime la propria organizzazione e la propria “forma” su di un materiale “estraneo”, ma in tal modo determina uno scarto fra la propria logica e quella dell’ambiente in cui vive.
Che cosa avviene per la persona? Relativamente all’ambiente in cui vive la persona, cioè i sistemi psichici e le funzioni, vi è un processo analogo: la persona in base alla propria chiusura operativa metabolizza le funzioni psichiche in atti. Per precisare meglio la situazione riferisco l’atto esclusivamente alla persona: un Io psichico non può eseguire atti, ma solo azioni e funzioni. Ma qui emerge un paradosso in quanto se la persona è in grado di distinguersi dal proprio ambiente  psichico in base alla propria chiusura, in modo analogo all’organismo, è anche vero che non è in tale operazione che la persona costituisce la propria identità, come invece avviene nell’organismo. La persona costituisce la propria identità nell’esecuzione dell’atto, ma l’esecuzione dell’atto non è più finalizzata a riprodurre la distinzione con l’ambiente ma a determinare un processo di tras-formazione della persona stessa in senso compartecipativo, attraverso cioè l’esemplarità altrui. In tal senso vi è chiusura operativa solo nei confronti dei sistemi psichici, ma non degli altri sistemi personali, il motivo risiede nella natura stessa dell’atto: l’atto viene infatti co-eseguito in quanto, a differenza dell’azione psichica, avviene sempre sulla base di una apertura intenzionale all’alterità sulla base di una esemplarità che ha la capacità di rettificare nel senso della Um-bildung, cioè del dar forma alla propria anima promuovendo la seconda nascita.
L’idea è quella di connettere l’ontologia della persona al concetto di ri-nascita come autotrascendenza (Selbsttranszendenz). La rinascita avviene attraverso la co-esecuzione dell’atto: l’atto è un passo, un tassello nel processo di costituzione dell’identità personale.  In tal modo la persona nasce una prima volta metabolizzando funzioni psichiche in atti e distinguendosi dall’Io, ma nasce una seconda volta nella misura in cui co-esegue gli atti metabolizzati. Nel primo caso l’atto è il punto di arrivo, nel secondo è il punto di partenza.

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