lunedì 20 febbraio 2012

Dio impotente o Dio sofferente? Breve riflessione dopo la lettura di: E. Wiesel, La Notte.


Dio impotente o Dio sofferente?
(Da una conferenza del 2008)

È ne  La notte che E. Wiesel descrive l'impiccagione di un bambino, il famoso “angelo dagli occhi tristi”:
«I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. - Viva la libertà! - gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. - Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.  Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora... Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: - Dov'è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: - Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca... » (Il brano, famosissimo, è discusso anche da Carlo Angelino nella sua bella Introduzione a H. Jonas, Pensare Dio dopo Auschwitz).
È come se in quella risposta alla domanda "dov'è dunque Dio?" non ci fosse affatto provocazione tanto che, se il testo non fosse di uno scrittore ebraico, si sarebbe tentati di pensare al Dio crocifisso come icona della vittima. In ogni caso l'interrogativo rimane: o si presume che Dio abbia deciso di fermarsi sulla soglia di Auschwitz o il tradizionale concetto di onnipotenza è da ripensare. Il sospetto è che si sia finito con il diventare prigionieri di un concetto antropomorfico, se non tecnologico di onnipotenza. Forse bisognerebbe iniziare proprio di qui, distinguendo l'onnipotenza di un "Dio" che fabbrica tecnologicamente il mondo e l'onnipotenza agapica di un Dio che apre alla seconda creazione, cioè alla rinascita della persona.
Un secondo aspetto che mi lascia perplesso è la nozione comune di miracolo: anch'essa è legata a un concetto "tecnologico" di onnipotenza, cioè alla capacità di originare fenomeni che contravvengono completamente alle leggi scientifiche. Quel miracolo che nella Leggenda del Grande Inquisitore veniva posto assieme al mistero e all'autorità alla base dell'opera di "rettificazione". L'attesa nel "grande" miracolo dà allo scettico la prova che in cuor suo cercava: se Dio è onnipotente e può far miracoli di questo tipo perché non ha bloccato gli scambi ferroviari dei treni diretti ad Auschwitz o le valvole delle camere a gas? Ma può anche aver l'effetto di indurre il credente a passare tutta l'esistenza nell'attesa e nella ricerca del "grande miracolo" senza più riuscire intanto a meravigliarsi dei tanti "piccoli" miracoli quotidiani: la nascita di un bambino, un sorriso, il cielo stellato, un quadro di van Gogh, un gesto inaspettato di altruismo, l'aurora di un nuovo giorno di salute, l'attimo in cui si riesce a meravigliarsi di fronte al semplice fatto di esistere. Forse intanto la presenza di Dio va ripensata a partire da questi "piccoli" miracoli quotidiani.

I due discepoli verso Emmaus parlavano con Gesù senza averlo riconosciuto e quando a cena lo riconobbero, Lui scomparve. Se il divino c'è, in qualche modo è attorno a noi, ma non lo vediamo perché ce lo raffiguriamo in modo sbagliato. Più che pregare di starci vicino, dovremmo pregare di diventare capaci di vederlo e riconoscerlo. E quando ne facciamo esperienza non possiamo però toccarlo ed esporlo trionfalmente come un vitello d'oro. Questo significherebbe ritornare a renderlo invisibile ai non credenti.

Partire dall'assenza, strumentalizzando la tesi del zimzum, il ritirarsi, l'autolimitazione del divino, per affermare l'idea di un Dio che permette la crescita del bene e della libertà solo negli spazi del suo ritiro rischia di condurre all'idea di un Dio rovesciato, un Dio velenoso. Se invece la presenza è pensata nel senso dell'onnipotenza tecnologica riesplode il problema della teodicea, il rapporto fra Dio e il male.

Moltmann (Dio nella creazione) suggerisce forse una diversa interpretazione del zimzum: questo ritirarsi va inteso come rinuncia alla tentazione monarchica onnipotente. Ciò che si ritira non è la dimensione agapica, ma la pretesa onnipotente. E' quindi un atto di autotrascendimento, di presa di distanza da sé, per porsi un limite. Un atto reso possibile solo in una prospettiva di agape e umiltà. In questo autotrascendimento della prima potenza del divino, il divino crea.

È il problema posto da Schelling con la Freiheitsschrift: «Sagen, Gott halte seine Allmacht zurück, damit der Mensch handeln könne, oder er lasse die Freiheit zu, erklärt nichts: zöge Gott seine Macht einen Augenblick zurück, so hörte der Mensch auf zu seyn». (Freiheitsschrift, SW VII, 339). In Dio stesso vi è una tensione frutto di una duplicità originaria. Qui si annuncia la morte di un certo concetto di Dio, un annuncio così rivoluzionario che non esito a paragonare a quello di Nietzsche.  La questione cruciale non è che nell'esperienza umana ci sia il male, bensì che non ci sia solo il male, che ci siano appunto anche tanti "piccoli" miracoli in cui è possibile tentare di superare il male. Dio stesso in questa prospettiva può essere considerato come l'esempio icastico e originario della possibilità di sconfiggere e superare il male, il fatto fenomenologicamente apodittico che per l'appunto non ci sia solo il male. Un Dio quindi pensato non nel senso di una onnipotenza "tecnologica" ma come l'esempio della possibilità di superare il male, e di permettere quel "piccolo" miracolo della trasformazione della persona: il fatto che l'uomo possa provare rimorso e a volte perfino autentico pentimento. Sono temi che inevitabilmente riportano al Dio sofferente, descritto così bene da J. Moltmann in: Il Dio crocifisso. Proprio perché  sostiene lo sforzo di superare il male e la possibilità di trasformare la sofferenza in cambiamento, Dio sceglie di entrare nel mondo dalla parte del sofferente, dell'oppresso, della vittima, quasi in un moto che finisce con l'imitare e incarnare la resurrezione.

Per questo Jonas, nella misura in cui teorizza nel famoso libro Pensare Dio dopo Auschwitz un Dio "impotente", non mi convince. Qui il punto di riferimento è ancora il problema dell’onnipotenza di Dio così come può essere desunto dalla traduzione dell'ebraico El Shaddaj (forse dall’accadico Shaddu «monte», quindi nel senso di Dio altissimo), in greco pantocrator (Creatore o Signore di tutto) fino al latino reso nellaVulgata di San Girolamo con onnipotens, un concetto che non corrisponde a pantocrator e che risulta estremamente problematico. Ma proprio per questo problematici rimangono anche i tentativi di pensare il male come conseguenza di una impotenza o "imperfetta onnipotenza" di Dio.
Per il resto la riflessione di Jonas riprende una tesi già presente in Schelling e in Scheler, quella del “Dio in divenire". Non penso che neppure essa possa essere proiettata sul momento trascendente, su quelDeus absconditus che secondo Pascal mette fuori gioco la teologia razionale, e su cui al filosofo conviene non pronunciarsi. Il Dio diveniente è piuttosto riferibile al momento divino nel mondo. Il sacro (da heilen, guarire) come struttura che regge lo sforzo salvifico. Ma rimane uno sforzo che non segue la linearità di un progetto tecnologico quanto i percorsi della speranza, di un moto escatologico. Non è la tesi di un Dio impotente, ma di un Dio che offre l'esempio di superamento della sofferenza. Mi pare la prospettiva meno problematica. La centralità della sofferenza deriva dal fatto che il superamento del male morale può avvenire solo attraverso la sofferenza. Dio è all'origine di ogni sforzo teso al superamento del male. La sua è tuttavia una onnipotenza agapica e non tecnologica: non agisce eliminando il male e la sofferenza, ma reggendo lo sforzo per superarli. Di qui il dramma dell'eccesso di sofferenza inutile.
Forse nell'iconografia della crocifissione è il crocifisso di Arezzo di Cimabue quello che meglio mette in evidenza il sottrarsi dell'onnipotenza agapica a un confronto muscolare con il mondo, nella consapevolezza che esso legherebbe ancora di più alla logica del male.  Quello del crocifisso di Cimabue è un corpo pieno di potenza, eppure nel Christus patiens traspare contemporaneamente la dichiarazione di rinunciare a essa, che rimane come crocifissa, nella consapevolezza rassegnata che il superamento del male morale, purtroppo, richiede altre strade.








Nessun commento:

Posta un commento