Dio impotente o Dio
sofferente?
(Da una conferenza del 2008)
È ne La notte che E.
Wiesel descrive l'impiccagione di un bambino, il famoso “angelo dagli occhi
tristi”:
«I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I
tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. - Viva la
libertà! - gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. - Dov'è il Buon
Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le
tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole
tramontava. Poi cominciò la sfilata. I
due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la
terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando
sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo
quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora
spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: - Dov'è dunque Dio? E io
sentivo in me una voce che gli rispondeva: - Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a
quella forca... » (Il brano, famosissimo, è discusso anche da Carlo Angelino
nella sua bella Introduzione a H. Jonas, Pensare Dio dopo Auschwitz).
È come se in quella risposta alla domanda "dov'è dunque
Dio?" non ci fosse affatto provocazione tanto che, se il testo non fosse
di uno scrittore ebraico, si sarebbe tentati di pensare al Dio crocifisso come
icona della vittima. In ogni caso l'interrogativo rimane: o si presume che Dio
abbia deciso di fermarsi sulla soglia di Auschwitz o il tradizionale concetto
di onnipotenza è da ripensare. Il sospetto è che si sia finito con il diventare
prigionieri di un concetto antropomorfico, se non tecnologico di onnipotenza.
Forse bisognerebbe iniziare proprio di qui, distinguendo l'onnipotenza di un "Dio"
che fabbrica tecnologicamente il mondo e l'onnipotenza agapica di un Dio che
apre alla seconda creazione, cioè alla rinascita della persona.
Un secondo aspetto che mi lascia perplesso è la nozione
comune di miracolo: anch'essa è legata a un concetto "tecnologico" di
onnipotenza, cioè alla capacità di originare fenomeni che contravvengono
completamente alle leggi scientifiche. Quel miracolo che nella Leggenda del
Grande Inquisitore veniva posto assieme al mistero e all'autorità alla base
dell'opera di "rettificazione". L'attesa nel "grande"
miracolo dà allo scettico la prova che in cuor suo cercava: se Dio è
onnipotente e può far miracoli di questo tipo perché non ha bloccato gli scambi
ferroviari dei treni diretti ad Auschwitz o le valvole delle camere a gas? Ma
può anche aver l'effetto di indurre il credente a passare tutta l'esistenza
nell'attesa e nella ricerca del "grande miracolo" senza più riuscire
intanto a meravigliarsi dei tanti "piccoli" miracoli quotidiani: la
nascita di un bambino, un sorriso, il cielo stellato, un quadro di van Gogh, un
gesto inaspettato di altruismo, l'aurora di un nuovo giorno di salute, l'attimo
in cui si riesce a meravigliarsi di fronte al semplice fatto di esistere. Forse
intanto la presenza di Dio va ripensata a partire da questi "piccoli"
miracoli quotidiani.
I due discepoli verso Emmaus parlavano con Gesù senza averlo
riconosciuto e quando a cena lo riconobbero, Lui scomparve. Se il divino c'è,
in qualche modo è attorno a noi, ma non lo vediamo perché ce lo raffiguriamo in
modo sbagliato. Più che pregare di starci vicino, dovremmo pregare di diventare
capaci di vederlo e riconoscerlo. E quando ne facciamo esperienza non possiamo
però toccarlo ed esporlo trionfalmente come un vitello d'oro. Questo
significherebbe ritornare a renderlo invisibile ai non credenti.
Partire dall'assenza, strumentalizzando la tesi del zimzum,
il ritirarsi, l'autolimitazione del divino, per affermare l'idea di un Dio che
permette la crescita del bene e della libertà solo negli spazi del suo ritiro
rischia di condurre all'idea di un Dio rovesciato, un Dio velenoso. Se invece
la presenza è pensata nel senso dell'onnipotenza tecnologica riesplode il
problema della teodicea, il rapporto fra Dio e il male.
Moltmann (Dio nella creazione) suggerisce forse una diversa
interpretazione del zimzum: questo ritirarsi va inteso come rinuncia alla
tentazione monarchica onnipotente. Ciò che si ritira non è la dimensione
agapica, ma la pretesa onnipotente. E' quindi un atto di autotrascendimento, di
presa di distanza da sé, per porsi un limite. Un atto reso possibile solo in
una prospettiva di agape e umiltà. In questo autotrascendimento della prima
potenza del divino, il divino crea.
È il problema posto da Schelling con la Freiheitsschrift: «Sagen,
Gott halte seine Allmacht zurück, damit der Mensch handeln könne, oder er lasse
die Freiheit zu, erklärt nichts: zöge Gott seine Macht einen Augenblick zurück,
so hörte der Mensch auf zu seyn». (Freiheitsschrift,
SW VII, 339). In Dio stesso vi è una tensione frutto di una duplicità
originaria. Qui si annuncia la morte di un certo concetto di Dio, un annuncio
così rivoluzionario che non esito a paragonare a quello di Nietzsche. La questione cruciale non è che
nell'esperienza umana ci sia il male, bensì che non ci sia solo il male, che ci
siano appunto anche tanti "piccoli" miracoli in cui è possibile
tentare di superare il male. Dio stesso in questa prospettiva può essere
considerato come l'esempio icastico e originario della possibilità di
sconfiggere e superare il male, il fatto fenomenologicamente apodittico che per
l'appunto non ci sia solo il male. Un Dio quindi pensato non nel senso di una
onnipotenza "tecnologica" ma come l'esempio della possibilità di
superare il male, e di permettere quel "piccolo" miracolo della
trasformazione della persona: il fatto che l'uomo possa provare rimorso e a
volte perfino autentico pentimento. Sono temi che inevitabilmente riportano al
Dio sofferente, descritto così bene da J. Moltmann in: Il Dio crocifisso.
Proprio perché sostiene lo sforzo di
superare il male e la possibilità di trasformare la sofferenza in cambiamento,
Dio sceglie di entrare nel mondo dalla parte del sofferente, dell'oppresso,
della vittima, quasi in un moto che finisce con l'imitare e incarnare la
resurrezione.
Per questo Jonas, nella misura in cui teorizza nel famoso
libro Pensare Dio dopo Auschwitz un Dio "impotente", non mi convince.
Qui il punto di riferimento è ancora il problema dell’onnipotenza di Dio così
come può essere desunto dalla traduzione dell'ebraico El Shaddaj (forse
dall’accadico Shaddu «monte», quindi nel senso di Dio altissimo), in greco
pantocrator (Creatore o Signore di tutto) fino al latino reso nellaVulgata di
San Girolamo con onnipotens, un concetto che non corrisponde a pantocrator e che
risulta estremamente problematico. Ma proprio per questo problematici rimangono
anche i tentativi di pensare il male come conseguenza di una impotenza o
"imperfetta onnipotenza" di Dio.
Per il resto la riflessione di Jonas riprende una tesi già
presente in Schelling e in Scheler, quella del “Dio in divenire". Non
penso che neppure essa possa essere proiettata sul momento trascendente, su
quelDeus absconditus che secondo Pascal mette fuori gioco la teologia
razionale, e su cui al filosofo conviene non pronunciarsi. Il Dio diveniente è
piuttosto riferibile al momento divino nel mondo. Il sacro (da heilen, guarire)
come struttura che regge lo sforzo salvifico. Ma rimane uno sforzo che non segue
la linearità di un progetto tecnologico quanto i percorsi della speranza, di un
moto escatologico. Non è la tesi di un Dio impotente, ma di un Dio che offre
l'esempio di superamento della sofferenza. Mi pare la prospettiva meno
problematica. La centralità della sofferenza deriva dal fatto che il
superamento del male morale può avvenire solo attraverso la sofferenza. Dio è
all'origine di ogni sforzo teso al superamento del male. La sua è tuttavia una
onnipotenza agapica e non tecnologica: non agisce eliminando il male e la
sofferenza, ma reggendo lo sforzo per superarli. Di qui il dramma dell'eccesso
di sofferenza inutile.
Forse nell'iconografia della crocifissione è il crocifisso
di Arezzo di Cimabue quello che meglio mette in evidenza il sottrarsi dell'onnipotenza
agapica a un confronto muscolare con il mondo, nella consapevolezza che esso
legherebbe ancora di più alla logica del male.
Quello del crocifisso di Cimabue è un corpo pieno di potenza, eppure nel
Christus patiens traspare contemporaneamente la dichiarazione di rinunciare a
essa, che rimane come crocifissa, nella consapevolezza rassegnata che il
superamento del male morale, purtroppo, richiede altre strade.
Dio impotente o Dio
sofferente?
(Da una conferenza del 2008)
È ne La notte che E.
Wiesel descrive l'impiccagione di un bambino, il famoso “angelo dagli occhi
tristi”:
«I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I
tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. - Viva la
libertà! - gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. - Dov'è il Buon
Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le
tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole
tramontava. Poi cominciò la sfilata. I
due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la
terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando
sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo
quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora
spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: - Dov'è dunque Dio? E io
sentivo in me una voce che gli rispondeva: - Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a
quella forca... » (Il brano, famosissimo, è discusso anche da Carlo Angelino
nella sua bella Introduzione a H. Jonas, Pensare Dio dopo Auschwitz).
È come se in quella risposta alla domanda "dov'è dunque
Dio?" non ci fosse affatto provocazione tanto che, se il testo non fosse
di uno scrittore ebraico, si sarebbe tentati di pensare al Dio crocifisso come
icona della vittima. In ogni caso l'interrogativo rimane: o si presume che Dio
abbia deciso di fermarsi sulla soglia di Auschwitz o il tradizionale concetto
di onnipotenza è da ripensare. Il sospetto è che si sia finito con il diventare
prigionieri di un concetto antropomorfico, se non tecnologico di onnipotenza.
Forse bisognerebbe iniziare proprio di qui, distinguendo l'onnipotenza di un "Dio"
che fabbrica tecnologicamente il mondo e l'onnipotenza agapica di un Dio che
apre alla seconda creazione, cioè alla rinascita della persona.
Un secondo aspetto che mi lascia perplesso è la nozione
comune di miracolo: anch'essa è legata a un concetto "tecnologico" di
onnipotenza, cioè alla capacità di originare fenomeni che contravvengono
completamente alle leggi scientifiche. Quel miracolo che nella Leggenda del
Grande Inquisitore veniva posto assieme al mistero e all'autorità alla base
dell'opera di "rettificazione". L'attesa nel "grande"
miracolo dà allo scettico la prova che in cuor suo cercava: se Dio è
onnipotente e può far miracoli di questo tipo perché non ha bloccato gli scambi
ferroviari dei treni diretti ad Auschwitz o le valvole delle camere a gas? Ma
può anche aver l'effetto di indurre il credente a passare tutta l'esistenza
nell'attesa e nella ricerca del "grande miracolo" senza più riuscire
intanto a meravigliarsi dei tanti "piccoli" miracoli quotidiani: la
nascita di un bambino, un sorriso, il cielo stellato, un quadro di van Gogh, un
gesto inaspettato di altruismo, l'aurora di un nuovo giorno di salute, l'attimo
in cui si riesce a meravigliarsi di fronte al semplice fatto di esistere. Forse
intanto la presenza di Dio va ripensata a partire da questi "piccoli"
miracoli quotidiani.
I due discepoli verso Emmaus parlavano con Gesù senza averlo
riconosciuto e quando a cena lo riconobbero, Lui scomparve. Se il divino c'è,
in qualche modo è attorno a noi, ma non lo vediamo perché ce lo raffiguriamo in
modo sbagliato. Più che pregare di starci vicino, dovremmo pregare di diventare
capaci di vederlo e riconoscerlo. E quando ne facciamo esperienza non possiamo
però toccarlo ed esporlo trionfalmente come un vitello d'oro. Questo
significherebbe ritornare a renderlo invisibile ai non credenti.
Partire dall'assenza, strumentalizzando la tesi del zimzum,
il ritirarsi, l'autolimitazione del divino, per affermare l'idea di un Dio che
permette la crescita del bene e della libertà solo negli spazi del suo ritiro
rischia di condurre all'idea di un Dio rovesciato, un Dio velenoso. Se invece
la presenza è pensata nel senso dell'onnipotenza tecnologica riesplode il
problema della teodicea, il rapporto fra Dio e il male.
Moltmann (Dio nella creazione) suggerisce forse una diversa
interpretazione del zimzum: questo ritirarsi va inteso come rinuncia alla
tentazione monarchica onnipotente. Ciò che si ritira non è la dimensione
agapica, ma la pretesa onnipotente. E' quindi un atto di autotrascendimento, di
presa di distanza da sé, per porsi un limite. Un atto reso possibile solo in
una prospettiva di agape e umiltà. In questo autotrascendimento della prima
potenza del divino, il divino crea.
È il problema posto da Schelling con la Freiheitsschrift: «Sagen,
Gott halte seine Allmacht zurück, damit der Mensch handeln könne, oder er lasse
die Freiheit zu, erklärt nichts: zöge Gott seine Macht einen Augenblick zurück,
so hörte der Mensch auf zu seyn». (Freiheitsschrift,
SW VII, 339). In Dio stesso vi è una tensione frutto di una duplicità
originaria. Qui si annuncia la morte di un certo concetto di Dio, un annuncio
così rivoluzionario che non esito a paragonare a quello di Nietzsche. La questione cruciale non è che
nell'esperienza umana ci sia il male, bensì che non ci sia solo il male, che ci
siano appunto anche tanti "piccoli" miracoli in cui è possibile
tentare di superare il male. Dio stesso in questa prospettiva può essere
considerato come l'esempio icastico e originario della possibilità di
sconfiggere e superare il male, il fatto fenomenologicamente apodittico che per
l'appunto non ci sia solo il male. Un Dio quindi pensato non nel senso di una
onnipotenza "tecnologica" ma come l'esempio della possibilità di
superare il male, e di permettere quel "piccolo" miracolo della
trasformazione della persona: il fatto che l'uomo possa provare rimorso e a
volte perfino autentico pentimento. Sono temi che inevitabilmente riportano al
Dio sofferente, descritto così bene da J. Moltmann in: Il Dio crocifisso.
Proprio perché sostiene lo sforzo di
superare il male e la possibilità di trasformare la sofferenza in cambiamento,
Dio sceglie di entrare nel mondo dalla parte del sofferente, dell'oppresso,
della vittima, quasi in un moto che finisce con l'imitare e incarnare la
resurrezione.
Per questo Jonas, nella misura in cui teorizza nel famoso
libro Pensare Dio dopo Auschwitz un Dio "impotente", non mi convince.
Qui il punto di riferimento è ancora il problema dell’onnipotenza di Dio così
come può essere desunto dalla traduzione dell'ebraico El Shaddaj (forse
dall’accadico Shaddu «monte», quindi nel senso di Dio altissimo), in greco
pantocrator (Creatore o Signore di tutto) fino al latino reso nellaVulgata di
San Girolamo con onnipotens, un concetto che non corrisponde a pantocrator e che
risulta estremamente problematico. Ma proprio per questo problematici rimangono
anche i tentativi di pensare il male come conseguenza di una impotenza o
"imperfetta onnipotenza" di Dio.
Per il resto la riflessione di Jonas riprende una tesi già
presente in Schelling e in Scheler, quella del “Dio in divenire". Non
penso che neppure essa possa essere proiettata sul momento trascendente, su
quelDeus absconditus che secondo Pascal mette fuori gioco la teologia
razionale, e su cui al filosofo conviene non pronunciarsi. Il Dio diveniente è
piuttosto riferibile al momento divino nel mondo. Il sacro (da heilen, guarire)
come struttura che regge lo sforzo salvifico. Ma rimane uno sforzo che non segue
la linearità di un progetto tecnologico quanto i percorsi della speranza, di un
moto escatologico. Non è la tesi di un Dio impotente, ma di un Dio che offre
l'esempio di superamento della sofferenza. Mi pare la prospettiva meno
problematica. La centralità della sofferenza deriva dal fatto che il
superamento del male morale può avvenire solo attraverso la sofferenza. Dio è
all'origine di ogni sforzo teso al superamento del male. La sua è tuttavia una
onnipotenza agapica e non tecnologica: non agisce eliminando il male e la
sofferenza, ma reggendo lo sforzo per superarli. Di qui il dramma dell'eccesso
di sofferenza inutile.
Forse nell'iconografia della crocifissione è il crocifisso
di Arezzo di Cimabue quello che meglio mette in evidenza il sottrarsi dell'onnipotenza
agapica a un confronto muscolare con il mondo, nella consapevolezza che esso
legherebbe ancora di più alla logica del male.
Quello del crocifisso di Cimabue è un corpo pieno di potenza, eppure nel
Christus patiens traspare contemporaneamente la dichiarazione di rinunciare a
essa, che rimane come crocifissa, nella consapevolezza rassegnata che il
superamento del male morale, purtroppo, richiede altre strade.
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