sabato 4 febbraio 2012

Il problema dell'orientamento nell'epoca della liquidità postmoderna

E' già stato osservato che la tesi postmoderna sulla fine delle grandi narrazioni è essa stessa una grande narrazione, così come la tesi che non esistono verità e che tutto è relativo avanza essa stessa una pretesa contraddittoria di verità assoluta e universale. Qui di seguito affronto un'ulteriore questione: la caduta della morale dell'obbedienza criticata da Nietzsche non si è tradotta in una scomparsa della domanda sociale di orientamento, ma piuttosto in un processo di "balcanizzazione" in cui hanno finito con il prevalere forme di orientamento primitive basate sulle passioni negative come la paura, l'odio e il risentimento su cui ha fatto abilmente leva il nuovo linguaggio mitologico della politica. Nella stessa liquidità postmoderna non è vero che tutto è "liquido": sono rintracciabili anche forme "forti" di orientamento aziendale capaci di tradursi in un vero e proprio allevamento mediatico di massa. La mancanza di un quadro di riferimento valoriale non ha quindi comportato la liberazione dell'uomo adulto, come aveva ipotizzato un certo pensiero postmoderno, ma solo l'emergere di quello che Lasch ha chiamato l'Io minimo. Il problema è allora quello di ripensare il problema dell'orientamento e dei valori al di fuori della morale dell'obbedienza e del relativismo etico, perché senza di essi l'uomo è incapace di dare forma alla propria identità personale e svuota dall'interno come un tarlo anche quella della società in cui vive, diventando un individuo isolato privo di legami sociali. Un individuo liquido, ma proprio per questo massimamente incanalabile dalla logica dell'allevamento mediatico di massa.
Lo stesso discorso vale per il sacro e la religione: il sacro non si è estinto nel processo di secolarizzazione, ma si è ridefinito in funzione della domanda di autenticità e di creatività della persona. Tanto che oggi è difficile pensare al concetto stesso di azione creativa senza l'esperienza dell'essere strappati alla propria intrascendenza autoreferenziale, esperienza alla base del sacro autentico. Il problema è quello di riuscire a ridare spazio a quella che Bergson chiamava "religione aperta". Non vorrei che il tutto si traducesse in un passaggio dal pensiero postmoderno alla "religione chiusa", dal relativismo nichilista al dogmatismo apocalittico.



Riporto qui diverse parti di alcuni miei articoli che affrontano il problema del superamento del relativismo etico e della crisi del pensiero postmoderno

I parte:
Riproduco le pp. 96-110 dell'articolo "Le due possibili globalizzazioni", pubblicato in: "Nuova civiltà delle macchine", 2010


3. Crisi d’identità e patologie dell’opinione pubblica
Di solito quando si parla di globalizzazione e livellamento si pensa a una minaccia proveniente dall’esterno, dallo straniero, da paesi lontani ed esotici. Anche in questo caso si pone il problema dell’identità nell’ottica oppositiva e si sottovaluta profondamente il problema dell’orientamento: l’attuale crisi d’identità proviene innanzitutto da un cattivo funzionamento della produzione di orientamento, è prima di tutto un problema interno al sistema stesso. In altri termini il processo di livellamento globale è possibile solo perché c’è un processo di svuotamento sotterraneo che procede dall’interno, e questo risulta particolarmente allarmante per le così dette società democratiche “occidentali”.
Quello che mi pare di vedere non è, in primo luogo, uno scontro di civiltà o un assedio alla roccaforte dei “valori occidentali”, quanto una catastrofica implosione dell’“occidente” dall’interno. Certo può sempre scoppiare qualche minaccia concreta, come quella attualmente legata al nucleare iraniano; è anche evidente che, da un punto di vista economico, le sfide esistono e sono anche molto concrete: secondo un rapporto di PriceWaterhouseCoopers (società multinazionale leader nella consulenza aziendale) fra qualche decennio l’Indonesia e il Messico saranno economicamente più forti della Germania mentre nel frattempo la Turchia avrà già raggiunto l’Italia. Ma si tratta appunto di sfide, e del resto senza l’incremento dei consumi nei paesi emergenti sembra che le cose andrebbero ancora peggio.
La minaccia principale, quella che riguarda la possibilità stessa dello sviluppo culturale e spirituale di un paese, rimane a mio avviso una minaccia interna. È sul fronte interno che si sta consumando una liquefazione dell’identità e quindi un brutale livellamento delle differenze verso il basso. Di che cosa si tratta? Come si caratterizza questo svuotamento? L’attenzione dei mass media si è spesso focalizzata sul problema dell’immigrazione. Guardiamo invece a quello che è accaduto all’opinione pubblica. Come misero in luce Tocqueville prima e Ortega y Gasset poi, la democrazia non è affatto indenne da gravi patologie. Nel corso del XX secolo l’opinione pubblica è stata sostituita da qualcosa di diverso: un’opinione di massa composta da un insieme di individui passivi e atomizzati. L’identità dell’individuo “liquido” non si forma più attraverso l’orientamento dell’ethos puritano della primamodernità, teso alla produzione materiale ed ermeneutica, ma attraverso l’orientamento mediatico della tardomodernità, volto al consumo ludico. La postmodernità non si è accorta che la liquefazione non ha riguardato i sistemi di produzione di orientamento mediatico, ma solo le identità dei consumatori.
È vero che vi è stato un passaggio dall’identità umana come dato a quella come compito (Bauman 2001), ma tale compito è stato delegato alla libertà di scelta, cioè è stato nuovamente focalizzato sull’identità dell’Io a scapito dell’identità personale (che rimane irriducibile alla libertà di scelta). Infine tale compito è stato neutralizzato e ricondotto nuovamente al dato quando l’individuo, di fronte a un eccesso di possibilità di scelta rispetto alla propria complessità, è entrato in crisi di identità, dissipandosi secondo le classiche leggi delineate da Luhmann a proposito dei sistemi autopoietici. A questo punto l’automatismo inerziale al consenso – che nell’orientamento della primamodernità veniva ottenuto mediante le istituzioni tradizionali e autoritarie – nell’orientamento della tardomodernità viene indotto offrendo mediaticamente contenuti intenzionalmente strutturati per essere immediatamente fruibili.
A questo proposito è molto significativo quello che è avvenuto nella sfera intima. È nella sfera intima che sarebbe possibile sperare in un recupero della funzione rettificante dell’esemplarità personale e comunitaria. In realtà a partire dagli anni Sessanta, con la caduta della morale autoritaria (l’ideale ascetico criticato da Nietzsche) la sfera intima non ha più trovato, a livello di massa, alternative di orientamento che non fossero il divieto dell’orientamento stesso, con il risultato di ridurre ulteriormente gli spazi formativi che tradizionalmente spettavano alla famiglia.
Anche dando un giudizio negativo sulla vecchia morale, è difficile negare che la sua caduta abbia però determinato un vistoso bisogno inappagato di punti di riferimento e di alfabetizzazione affettiva basilare. È questo bisogno primario di orientamento che è probabilmente all’origine di quel fenomeno che, a partire dagli anni Novanta, ha comportato il successo dei reality shows. Questi sono venuti incontro a una domanda di “orientatività quotidiana” che la sfera intima del telespettatore medio non era più in grado di esprimere in modo adeguato.
Il problema non risiede nei mass media in sé: questi si sono limitati a portare fino alle estreme conseguenze la logica del processo dell’opposizione psichica, volto alla ricerca di conferme e di riconoscimento. Il reality show ha costituito tuttavia un ulteriore passo in avanti in quanto, rappresentando e riproducendo la sfera intima degli individui che sincronizzano su di esso la propria vita quotidiana, la rende usufruibile in modo pubblico e inaugura una forma di “meta-consumo esistenziale”. Qui il circolo funzional-mediatico propone immagini standardizzate che, esonerando la fatica ermeneutica del vivere quotidianamente la propria sfera intima, la rendono virtuale. In tal modo la logica della sfera intima viene colonizzata da quella oppositiva e gli spazi di formazione dell’identità personale, che erano possibili nella forma dell’esemplarità, si riducono sempre di più a vantaggio di una generica identità noicentrica.
Il risultato è che tutte le energie del sistema sociale rischiano di essere finalizzate univocamente alla realizzazione standardizzata dei modelli mimetici di successo sociale. Non è un caso che oggi un individuo abbia a portata di mano tutte le possibili informazioni sulle più svariate abilità e prestazioni dell’Io a cui si contrappone una disarmante povertà degli spazi volti alla realizzazione della propria identità personale.
La funzione formativa della famiglia e delle altre comunità, che tradizionalmente forniscono orientamento sui temi fondamentali della realizzazione del sé e della ricerca di un senso alla propria esistenza, viene ulteriormente indebolita dal teorema postmoderno che ha tragicamente confuso l’orientatività innovativa della persona con l’ideale ascetico, scambiando i tentativi di rispondere in modo non relativistico a queste tematiche fondamentali per “fabulazioni”. In realtà l’azzeramento dell’orientamento proveniente dagli strati affettivi del centro personale ha prodotto una moltitudine di individui sempre più bisognosa di modelli di comportamento immediatamente fruibili. L’identità che si costituisce nel consumo, anche quello elitario di tipo ludico-estetico, è soggetta al bisogno di riconoscimento sociale e quindi a un potente strumento di controllo e di uniformizzazione: per essere riconosciuto devo adeguarmi al modo di pensare degli altri. Inoltre la ricerca inappagata di senso e di salvezza, che nonostante tutto permane, viene deviata a livello noicentrico con il risultato di trasferire sull’opinione di massa anche il gravoso carico di rispondere a quelle aspirazioni che propriamente spettano solo all’identità personale, e questo nell’unico modo in cui ne è capace: incoraggiando pericolose derive populistiche.
La negazione delle aspirazioni tradizionalmente riconducibili alla sfera religiosa ha reso tragicamente ciechi e acritici intere generazioni di intellettuali postmoderni proprio nei confronti di quella trasformazione “laica” del bisogno inappagato di sacro, che si è improvvisamente materializzata nella virtualizzazione di massa della realtà ruotante intorno al mezzo televisivo. In pratica il pensiero postmoderno non si è reso conto per tempo che la desacralizzazione del mondo stava rapidamente approdando a forme di pensiero “mitologico” che, da un punto di vista tecnico, erano infinitamente più efficaci di quelle che si voleva superare.
Superata l’illusione postmoderna, rimane il problema di come la religione, la filosofia e la politica si rapportino al bisogno riemergente di sacralità. Le risposte ispirate da Leo Strauss, seppur molto al di sopra del pensiero postmoderno, vanno incontro a diverse obiezioni. Se la sua élite non crede nei valori che dà in pasto alle masse, rischia di fare qualcosa di molto simile ai giochetti – descritti nel film Network (in italiano “Quinto potere”) diretto da Sidney Lumet nel 1975 – dell’ambiziosa dirigente Diana Christensen (interpretata da Faye Dunaway) per aumentare gli indici d’ascolto o, per rifarsi alla letteratura classica, darebbe l’impressione di voler emulare il Grande Inquisitore di Dostojevski che, in nome della felicità delle masse, s’arrogò il diritto di giustiziare una seconda volta Gesù Cristo.

4. Il compito dell’etica: emergenza educativa e alfabetizzazione affettiva
Il risultato è quello di un individuo e di una democrazia “occidentali” disorientati e quindi desiderosi di facili certezze. D’altra parte tutti i tentativi di risolvere il problema riproponendo una serie credibile di norme morali assolute sembrano cadere nel vuoto. Si tratta d’individuare una soluzione più radicale: è ingenuo pensare che la diffusa sensazione d’insensatezza e la liquidità dell’attuale quadro di orientamento complessivo siano dovute all’incapacità di trovare una nuova “teoria” più convincente: in questo la postmodernità aveva ragione. L’insensatezza deriva piuttosto da una disattivazione, a livello di massa, degli strati affettivi più profondi della persona; da una carenza di sapere e di esperienze circa le tecniche atte a riattivarli e a portarli a maturazione fino a far risplendere la preziosa orientatività di cui sarebbero capaci, la sola che potrebbe dar forma e realizzare l’eccedenza distintiva dell’uomo. Il problema non è quello d’inventare una nuova teoria in grado di dare un nuovo senso al mondo, ma quello più modesto di promuovere le tecniche tera­peutiche più efficaci a sviluppare gli strati affettivi più profondi: una volta risvegliati saranno loro stessi a “produrre senso” e a lavorare per favorire maieuticamente un percorso di realizzazione personale (Cusinato 2008, 118-119).
Senza questa orientatività qualitativa non c’è identità personale. Nella paura di esser diventato trasparente l’individuo pensa di esistere solo esibendo violenza e aggregandosi in gruppi anonimi. Più si sente invisibile più rivendica l’imposizione formale e autoritaria di simboli capaci per lo meno di presidiare gli spazi svuotati della propria differenza. Senza aver formato se stessi, senza cura sui, senza un impegnativo percorso di formazione dell’identità a livello personale, non è possibile impostare un dialogo o un confronto con il differente. Come farebbero le società “occidentali” a confrontarsi con le altre identità se si limitassero a costituire la propria a livello noicentrico o nel consumo ludico delle immagini mediatiche? Che tipo di identità sono attualmente in grado di esprimere? Gli stessi valori “occidentali” diventerebbero un contenitore vuoto e privo di forza, con il risultato di sostituire la capacità di distinguere con il discriminare, la ragione con la forza.
La possibilità di passare da una globalizzazione come livellamento a una globalizzazione come valorizzazione delle differenze qualitative ruota attorno alla capacità di risvegliare l’orientamento proveniente dagli strati affettivi personali: è il problema dell’alfabetizzazione affettiva e dell’emergenza educativa.

5. Esemplarità e solidarismo cristiano
Qual è la forza capace di esprimere un nuovo orientamento e di determinare una svolta axiologica rispetto a queste patologie dell’opinione di massa? La soluzione proposta da Pareto, e successivamente ripresa da Max Scheler, mi sembra inattuabile: le vere élites sono le prime a cadere sotto l’odio implacabilmente risentito e livellatore dell’opinione di massa, retrocedendo rapidamente a capro espiatorio. Le uniche élites destinate a sopravvivere nella iperdemocrazia di Ortega y Gasset sono le lobbies e gli spin doctors, ma si tratta propriamente di élites parassitarie, finalizzate a promuovere un incremento del processo di livellamento.
L’alternativa alla produzione di modelli di comportamento standardizzati è piuttosto nella promozione di un orientamento basato sull’esemplarità esistenziale sia a livello della singola persona sia a livello di comunità. La persona singola e le comunità di persone che raggiungono un’eccellenza esistenziale, che esprimono una particolare intensità esistenziale, agiscono concretamente diffondendo tutt’intorno orientamento esemplare. Questo orientamento è rettificante perché sfugge al meccanismo del desiderio mimetico di René Girard: la densità esistenziale guadagnata da una persona non innesca invidie e competizioni in quanto, come metterò in luce in seguito, l’esemplarità è con-divisibile in modo illimitato. Quando una persona si sente conquistata da una esemplarità altrui prova qualcosa che non coincide con l’invidia perché sente di poter aver accesso illimitato a quella ricchezza. È questa esemplarità la sola forza che può neutralizzare la logica sacrificale del desiderio mimetico e proporre alternative convincenti ai modelli di comportamento dominanti nell’opinione di massa.
È a comunità di persone, unite attorno a precise esemplarità esistenziali, più che alle élites, che va ricondotta la capacità di esprimere un orientamento alternativo e socialmente rettificante nei confronti delle patologie dell’opinione di massa. Senza questa rettificazione l’orientamento cade nel circolo vizioso dell’autoreferenzalità. Questo è alla base non solo delle patologie e del désordre du cœur del singolo ma, a livello sociale, anche delle patologie della democrazia: si tratta esattamente dello stesso problema. Come il singolo individuo, senza un orientamento esemplare, rimane prigioniero del proprio désordre du cœur, allo stesso modo una democrazia, incapace di dare uno spazio adeguato e strutturato all’orientamento esemplare della persona e delle comunità personali, non è una democrazia “postmoderna”, ma solo una democrazia malata. Invece questo spazio si riduce sempre di più nella stessa famiglia, mentre nell’istruzione pubblica la figura del docente è stata eccessivamente formalizzata, fino a privarla di ogni carisma trasformandola in proletario della catena di montaggio del sapere, cioè in passivo trasmettitore di informazioni.
L’orientamento esemplare è il concetto strategico per superare il relativismo senza ricadere nelle forme del dogmatismo. L’esemplarità ha una base universale, transculturale e interculturale in quanto, riguardando il problema della formazione dell’identità personale, coinvolge tutti gli uomini, indipendentemente dalla cultura, dall’epoca storica e dalla società in cui vivono. Se il problema viene impostato dal punto di vista delle tecniche di tras-formazione, e non dei contenuti concreti, l’esemplarità rappresenta una invariabile assoluta. In secondo luogo trascende ogni dimensione solipsistica e quindi soggettiva in quanto implica costitutivamente il riferimento all’alterità. L’esemplarità sta alla persona come il modello all’Io. Questo significa che la logica dell’esemplarità costituisce il proprium della persona nei confronti della logica oppositiva.
Il concetto di persona e d’identità personale che ho qui in mente risulta profondamente radicata nella tradizione cristiana. Il cristianesimo storicamente non è consistito nella difesa oppositiva di un univoco insieme di valori legati a una specifica cultura o nazione, ma nel porre al centro il problema universale della rinascita della persona. Penso qui soprattutto al tema della seconda nascita “dall’alto” affrontato nel Vangelo di Giovanni nell’episodio di Nicodemo.
La persona diventa l’essere che ha bisogno di rinascere una seconda volta “dall’alto”. L’esemplarità è tale nei confronti di questo rinascere. Ebbene nel cristianesimo l’essenziale diventa la capacità di compiere un rovesciamento axiologico passando a un nuovo modo di vivere che s’impernia sull’imitatio Christi. L’imitatio Christi è il paradigma originario dell’esemplarità. L’uomo, altrimenti prigioniero di quel ripiegamento su se stesso che caratterizza tutti gli esseri viventi, viene dispiegato, fino a permettere l’aprirsi alla trascendenza, solo grazie a un divino che assume spontaneamente l’iniziativa del rivelarsi. La rinascita dall’alto rappresenta il rovesciamento della logica autoreferenziale: non è il raggiungimento di un ulteriore livello di perfezione della propria identità soggettiva – come per certi aspetti è ancora implicito nella linearità dell’etica del potenziamento esistenziale di Spinoza – ma il rinascere oltre la propria autosufficienza grazie all’esemplarità, lo scoprire alla base del proprio statuto ontologico uno scambio costitutivo fra persona singola e comunità personale che ha come conseguenza la corresponsabilità di ogni persona nei confronti di tutte le altre singole persone.
Nell’esemplarità è possibile rapportarsi alla diversità in termini completamente mutati rispetto all’opposizione che caratterizza il processo centrico della vita: in modo solidaristico. La persona ri-nascendo salva non solo se stessa, ma rilancia uno sforzo solidaristico all’interno della comunità volto a far spazio a nuove differenze, tanto che la vitalità e la forza di una comunità è testimoniata sul lungo termine dalla capacità di rinnovare spiritualmente le persone che la compongono. La comunità cresce nello sforzo di aiutare l’individuo a spogliarsi dell’identità oppositivo-egocentrica per rafforzare e valorizzare l’identità e la differenza personale, mostra la sua forza nella misura in cui salva, e salva nella misura in cui fa crescere le differenze della realizzazione individuale di ciascun membro. Nell’esemplarità la persona irradia una nuova logica e un nuovo orientamento soterico perché rettificante: senza una rettificazione solidaristica la società deperisce, come il singolo va verso il désordre du cœur.
Nel rinascere dall’alto, grazie all’esemplarità, la persona diventa l’ente “ontologicamente innovativo”, nel senso di inaugurare un nuovo inizio. Vi è qui la possibilità di ripensare l’escatologica nel senso di Jürgen Moltmann, cioè come un processo di trascendenza dalla fattualità. Se la salvezza è nell’ultimo giorno, allora aveva ragione Marcione e non c’è altro da fare che accelerare la fine del mondo, se invece la salvezza è nella ri-nascita allora si tratta di rilanciare un nuovo inizio, una nuova logica, una seconda creazione a partire da ogni singola persona.
6. La polarizzazione delle differenze
Ma perché la necessità di questa connessione fra esemplarità e solidarismo? Nell’esemplarità ogni disvelamento ulteriore del mondo dei valori a opera di una singola persona è un aiuto offerto alla salvezza delle altre persone, ogni avanzamento riuscito nel proprio percorso di singolarizzazione e realizzazione esistenziale promuove l’emergere di ulteriori percorsi singolarizzanti. Qui il confronto con l’altro non è più finalizzato a conquistare e contendersi “territori”, ma a promuovere una rinascita “dall’alto” che rimane infinitamente condivisibile. Questo è possibile solo presupponendo quel principio di solidarietà enunciato da Scheler a proposito della salvezza (Scheler 1915, X, 235) e basato sul fatto che «i valori sono tanto più “elevati” quanto meno “divisibili”, cioè quanto meno debbano essere suddivisi fra coloro che ne partecipano» (Scheler 1917, II, 110). In questo senso il sacro, quale vertice della gerarchia dei valori è «la modalità di valore più in-divisibile in quanto è la più con-divisibile» (Ibidem, 542). Al contrario i valori meno elevati, come quelli del piacevole-spiacevole o dell’utile-dannoso, risultano minimamente in-divisibili e pertanto minimamente con-divisibili.Si tratta di un’intuizione che merita di essere sviluppata. Il portatore di un valore piacevole (per esempio il pane) o di un valore utile (una risorsa materiale come il petrolio) possono essere goduti solo se spartiti, e quindi contesi, al contrario il valore del sacro può essere con-diviso in uno sforzo solidaristico comune senza essere suddiviso. Utilizzando l’idea di una con-divisione senza suddivisione, propria dei valori superiori, è possibile ipotizzare un rovesciamento della logica oppositiva della vita, in quella che propongo di chiamare una “polarizzazione delle differenze”.

Normalmente con polarizzazione s’intende un processo di uniformizzazione in cui tutte le differenze vengono ricondotte a due poli opposti, ma in realtà con polarizzazione è possibile intendere ogni processo in cui si verifichi una concentrazione di proprietà verso un numero a piacere di punti, detti appunto poli. In questo senso il processo di formazione personale è un processo grazie al quale una individualità si polarizza, cioè si distingue, si differenzia ed emerge acquisendo una orientatività privilegiata. La con-divisione di un valore superiore polarizza, cioè individualizza ulteriormente chi prende parte a quella condivisione. Questo perché l’atto della con-divisione dell’in-divisibile coincide con il processo di formazione della propria identità. Il modo particolare con cui una singola persona con-divide la possibilità di salvezza in-divisibile, implicita nella rinascita, viene a coincidere con il processo di formazione della propria personalità.
Più una nazione consuma petrolio, meno petrolio sarà disponibile per le altre nazioni, maggiore sarà la lotta per la sua contesa, maggiore sarà l’uniformizzazione. Più con-divido un valore superiore, più la mia singolarità prende forma, più divento esemplare, più promuovo l’ulteriore con-divisione di quel valore. Più San Francesco esperisce il valore del sacro, più il valore del sacro diventa accessibile e con-divisibile per l’umanità. A ben vedere le varie forme di fanatismo religioso sono lotte per contendersi non un bene infinito-indivisibile come il sacro, bensì beni limitati che si possono usufruire solo in senso distributivo, come lo sono i simboli oggettivati di un sacro ridotto a idola.
L’equivoco è quello di scambiare l’identità personale con l’identità noicentrica dell’Io. Peculiare dell’identità personale è la capacità di oltrepassare la prospettiva solipsistica e, attraverso l’esemplarità della realizzazione esistenziale, rettificare il proprio désordre du cœur. Questo momento rettificante, presente nel principio solidaristico, è il principio cercato alla base della globalizzazione positiva. In quest’ultima non si tratta di ammucchiare diversi punti di vista e nemmeno di distillarne una sintesi hegeliana, ma piuttosto di farli interagire con un duplice effetto: la rettificazione del proprio disordine solipsistico e un processo solidaristico volto a promuovere un progressivo e sempre più approfondito svelamento del mondo dei valori. Il confronto produttivo, capace d’incrementare le differenze qualitative, ha in sé ambedue i momenti: contro ogni forma di relativismo viene confermato il valore ontologico del punto di vista personale, tuttavia, contro ogni forma di soggettivismo, i punti di vista personali possono assurgere a una esemplarità universale solo nella misura in cui sono rettificati e svuotati dal proprio solipsismo. Qui l’universalità coincide con l’esemplarità della propria rettificazione, diventa una esemplarità che, presupponendo lo svuotamento kenotico dell’Io, promuove differenza qualitativa.
Perché solidarismo? L’impostazione kantiana cercava di guadagnare un punto di vista universalmente valido presupponendo un’unica ragione eternamente costante. Finché, a partire da Dilthey, si è scoperto che le categorie di questa ragione assomigliavano pericolosamente alle categorie culturali dell’uomo europeo, con il conseguente rischio di ricadere in una qualche forma di etnocentrismo. La sfida consiste nel ribaltare il punto di vista ridando una concretezza e una indipendenza al mondo stesso. Così il mondo dei valori ha una sua “oggettività” in sé che tuttavia non può darsi in modo apodittico. È un mondo di valori infinito il cui progressivo svelamento richiede la cooperazione e la convergenza di tutte le infinite “verità personali”.
Il punto di svolta si verifica solo distinguendo la prospettiva individuale dal soggettivismo. È quello che fa Scheler in L’eterno dell’uomo quando esplicita la teoria dell’insostituibilità (Unersetzlichkeit): «ogni punto del flusso concreto degli eventi del mondo può di per sé diventare trampolino di lancio per cogliere essenze che nessun altro punto sarebbe in grado di cogliere» (Scheler 1923, V, 202). Queste “puntualità polarizzate” sono le individualità storiche e culturali, ma se ognuna di esse è l’unico trampolino di lancio verso determinati dati essenziali “oggettivi”, ne consegue che risultano ontologicamente insostituibili e che pertanto l’incremento del sapere essenziale è possibile solo attraverso la cooperazione (Kooperation) degli uomini e l’accordo (Miteinander) delle conoscenze [1] . Una globalizzazione come ricerca e integrazione dei nuovi dati essenziali si sviluppa nella forma di un solidarismo capace di valorizzare le differenze qualitative.
Ne consegue inoltre che non è nelle disponibilità del soggetto decidere quali valori cogliere o per quale Weltanschauung optare [2] , piuttosto è l’individuo a venir scelto dai valori che si materializzano nell’orientamento del suo ordo amoris: l’individuo costituisce la propria identità proprio nello sforzo solidaristico di offrire esemplarmente quelle sfumature di valore o quei valori che solo il suo punto di vista axiologico rende inizialmente accessibili. Se un insieme di dati essenziali è funzionalizzabile solo da una determinata prospettiva axiologica individuale, allora il prospettivismo personale non è una costruzione soggettiva, ma al contrario la risorsa su cui si fonda l’identità personale.
Tuttavia come sincronizzare e integrare questi frammenti di verità personale per ottenere un’immagine complessiva sempre più approfondita? Insistere sul cosmopolitismo multiculturale rischia di ricondurre a un nuovo percorso autoreferenziale. Piuttosto, una volta riconosciuta la dignità ontologica alla prospettiva personale, va posto il problema di una liberazione dai fenomeni di distorsione che la caratterizzano: l’individuo cessa di proiettare tutt’intorno l’immagine falsante degli idola del proprio egocentrismo, e quindi riesce a cogliere qualcosa oltre il se stesso, solo attraverso un processo kathartico di svuotamento dalle proprie ideologie. Questo processo di riposizionamento esistenziale può essere fatto con una tale precisione e assolutezza da raggiungere la perfezione di una esemplarità valida universalmente. Alla base c’è una sincronizzazione, una rettificazione, nel senso di Agostino, che trasforma il désordre du cœur in ordo amoris. Per questo è possibile un doppio movimento: l’avanzamento nel disvelamento del mondo dei valori e l’avanzamento nel processo di Bildung del proprio ordo amoris. Di conseguenza l’esemplarità può assurgere a una validità assoluta e universale proprio nella misura in cui promuove in modo pluralistico la singolarizzazione delle persone che contagia. Questa rettificazione è Ausgleich, cioè un riequilibrio che produce differenze qualitative: la logica oppositiva della prima globalizzazione si rovescia nella logica solidaristica della seconda globalizzazione.

7. Dalla desacralizzazione al disincanto
Ma nel concetto cristiano di rinascita vi è una ulteriore conseguenza per la globalizzazione. La rinascita dall’alto presuppone un processo di svuotamento della pienezza egologica. È un tema rilevante anche nella filosofia, rintracciabile fin dagli esercizi spirituali propri della filosofia greco-romana, su cui ha giustamente insistito Pierre Hadot. La purificazione o katharsis non è da concepire come una penitenza mortificante ma come una occasione per imparare a morire nel senso dell’imparare a vivere. Facendo morire il momento mortifero di se stessi l’uomo viene salvato dalla morte di chi vive non vivendo. Paradossalmente l’individuo diventa esistenzialmente invisibile nell’egocentrismo di chi si corazza, mentre risulta massimamente visibile nell’esemplarità di chi si spoglia.
Ma come ha da essere inteso, in questo contesto filosofico, il termine “salvezza”? È la salvezza nei confronti della chiusura ambientale di von Uexküll. In tutto il processo della centricità organica i valori vitali hanno la funzione di far emergere dallo sfondo indistinto dell’ambiente solo i contenuti biologicamente rilevanti. Si tratta di altrettanti echi, di altrettanti riempimenti di proiezioni pulsionali e, a livello dell’Io, di altrettanti desideri mimetici. Più si procede verso le classi dei valori superiori più questa logica viene rovesciata fino ad arrivare al valore del sacro a cui corrisponde la capacità kenotica di farsi illuminare dal mondo.
Passare dalla logica oppositiva a quella solidaristica significa rinunciare a riempire il territorio del sacro con le proiezioni fantasmatiche del proprio ego. Naturalmente questo presuppone un diverso modo d’intendere il sacro: l’affermazione di Lévi-Strauss, secondo cui il sacro è un prodotto culturale che varia a seconda delle società, va rovesciata in quella secondo cui a essere un prodotto culturale è solo l’oggettivazione del sacro. Altrettanto non il sacro, ma solo l’oggettivazione del sacro è alla base di quel rito della vittima sacrificale che, per René Girard, placando la violenza del desiderio mimetico, diventa indispensabile alla coesione sociale. Ma è una soluzione che non funziona, troppo fragile per fondare una qualsiasi società. In Delle cose nascoste (1978) René Girard se ne rende implicitamente conto scoprendo, nel kerygma cristiano dell’innocenza della vittima, lo smascheramento definitivo dell’ordine sacrificale. La coincidenza fra sacro e sacrificio della vittima [3] , la confusione fra il sacro e la logica dell’istanza sacrificale, avviene solo come conseguenza della logica della volontà di dominio.
Lo smascheramento dell’ordine sacrificale comporta però inevitabilmente una diversa considerazione del sacro. Il problema è anche in questo caso una diffusa incapacità affettiva di rapportarsi al sacro. Con sacro non intendo un palliativo, una valvola di sfogo alla violenza scaturita dal desiderio mimetico, ma das Heilige (dal verbo tedesco heilen: guarire, salvare). Se è il riempimento fantasmatico della sfera del sacro, non il sacro in sé, a essere all’origine delle aberrazioni dell’istanza sacrificale, e quindi delle varie forme di superstizione e di fanatismo religioso, come delle varie metafisiche del dominio, allora il processo di desacralizzazione è esso stesso un falso movimento che va radicalmente sostituito con un consapevole processo di disincanto verso gli idola. Disincanto non tanto verso culti religiosi di tipo idolatrico o feticistico, questa è la guerra intestina di tutte le grandi religioni su cui si sono già spesi fiumi di parole, ma verso i culti non religiosi degli idola relativi dominanti nella così detta società postmoderna.
La questione di fondo ruota attorno al kerygma cristiano che, denunciando l’innocenza della vittima, smaschera definitivamente l’ordine sacrificale: che cosa propone tale kerygma come alternativa alla logica oppositiva? La mia tesi è che il paradigma ultimo sia il solidarismo in cui è implicito il passaggio dall’attività proiettiva – con cui l’Io dipinge l’universo che lo circonda nei vari circuiti funzional-mediatici dell’opinione di massa, basata sulla logica oppositiva volta a contendersi oppositivamente i vari idola fantasmatici – all’attività recettiva della persona che si apre alla sfera del sacro (nel senso di Heilige) cogliendo solidaristicamente in esso esemplarità infinitamente con-divisibili.
Qui Girard non basta più. In Absolutsphäre und Realsetzung der Gottesidee (1915) Scheler sosteneva la necessità di una accurata terapia volta a salvare il centro dell’uomo dall’usurpazione della logica oppositiva dell’Io (Cusinato 1999, 112-116). Un passaggio che però l’uomo non è in grado di portare a termine all’interno della propria autosufficienza: di qui quel rinvio costitutivo dell’essere umano al divino, che nella sua forma immanente viene a coincidere con la struttura stessa che regge lo sforzo della Weltoffenheit, la sola capace di dar vita al disincanto nei confronti del proiettivismo del proprio Io.
Il disincanto, come processo soterico che libera dal totemismo e dalle superstizioni che popolano i territori del sacro, libera dalla chiusura dell’autoreferenzialità egologica. È tale disincanto che fa scoprire, al di là delle certezze e delle ovvietà dell’Io, l’esistenza di qualcosa di imprevedibile e con essa fa sorgere il sentimento della meraviglia [4] .
Incantamento e meraviglia sono due stati affettivi spesso confusi, ma in realtà opposti. L’incantamento è ottundente e ipnotico: è una delle tante forme di narcotizzazione culturale; la meraviglia al contrario è uno schiaffo alle ovvietà dell’ego, è un pathos che costringe a rimettere in discussione il proprio modo di vedere le cose. L’oggettivazione della sfera del sacro si cristallizza nella produzione dei vari idola e delle ovvietà su cui si edifica l’identità dell’Io, mentre solo la decolonializzazione del sacro dagli idola offre gli spazi di cui necessita il divenire della persona.
Si tratta di riaprire il discorso sul sacro. Il processo di desacralizzazione è esso stesso una nuova e più raffinata forma di colonizzazione fantasmatica del sacro, per questo la secolarizzazione è sempre sul punto di coincidere con una globalizzazione intesa come livellamento. Una globalizzazione promuove le differenze qualitative non come desacralizzazione, ma solo attraverso il disincanto nei confronti di quegli idola relativi con cui il bisogno di certezza dell’Io ha riempito e popolato la sfera del sacro. Solo facendo spazio a questa forma solidaristica di globalizzazione sarà possibile esprimere quel meta-orientamento sempre più necessario anche alla globalizzazione oppositiva.


Parte II
Riproduco le pp. 20-28 dell'articolo pubblicato in:



9. Democrazia e formazione della persona
A questo punto si comprende perché Scheler abbia posto al centro di questa conferenza, di carattere squisitamente politico, proprio il problema dell’antropologia filosofica: l’élite , come la Germania o l’Europa, svolge una funzione esemplare solo nella misura in cui anticipa su di sé il processo di rinascita dell’uomo, ma nel far questo deve già possedere una nuova forma di consapevolezza sull’uomo, cioè una nuova antropologia filosofica. In definitiva l’Ausgleich  rinvia all’antropologia filosofica in quanto «è in primo luogo un mutamento dell’uomo stesso» (IX, 147).
Se la democrazia va connessa al problema della formazione di nuove élites, queste sono tali nella misura in cui anticipano e danno spazio alla formazione dell’uomo nuovo. Il rapporto fra democrazia ed élite si radica dunque nell’antropologia filosofica, cioè ad un livello che precede quello politico. Saranno possibili diverse forme di democrazia a seconda del tipo di consapevolezza che l’uomo ha di se stesso, e a seconda degli spazi che verranno assicurati ai diversi tipi di Bildung e quindi ai diversi processi di costituzione dell’identità individuale. A partire dallo scritto Pentimento e rinascita, Scheler si rende conto che ciò che caratterizza l’uomo è il suo venire alla luce come un essere incompiuto, aperto alla possibilità di una seconda nascita. Eppure questi temi, nella conferenza del 1927, rimangono sullo sfondo. Il limite del progetto scheleriano non mi sembra allora risiedere nel concetto di Ausgleich, quanto nel non essere riuscito a sviluppare la teoria delle élites sul piano delle analisi svolte a proposito dei concetti di Bildung e Vorbild[39]. La capacità di selezionare élites in modo trasparente e meritocratico è una questione che non può essere imposta  alla democrazia dall’alto in quanto è a monte della politica stessa. È inoltre inattuabile in una democrazia di massa che assolutizza il concetto di uguaglianza e che risulta accumunata dall’odio risentito nei confronti di qualsiasi élites.
A quale democrazia pensava allora Scheler? E soprattutto a che cosa pensava realmente Scheler con il concetto di formazione delle élites? Il problema della formazione delle élites non è risolvibile con una decisione politica, ma va ricondotto al livello più profondo dell’antropologia filosofica della Bildung, questa tuttavia rinvia a sua volta al tema della rinascita della persona: il problema della democrazia va posto in riferimento al problema della formazione della persona. È qui che sarebbe interessante recuperare le insuperate analisi sul concetto di persona svolte da Scheler nel Formalismus.
In questa prospettiva emergono rilevanti convergenze non solo con i temi della cura sui di Pierre Hadot o delle tecnologie della formazione del sé di Foucault, ma pure con una filosofia come quella di Zambrano. È Zambrano che, in un testo come Persona e democrazia, raccoglie sotterraneamente i risultati dell’antropologia filosofica di Scheler – centrata sulla Bildung della persona come essere costitutivamente incompiuto e pertanto necessitato a una seconda nascita – per individuare con sicurezza il problema della democrazia nell’epoca dell’uomo di massa: «Se dovessimo dare una definizione di democrazia, potremmo dire che è la società in cui non solo è permesso, ma è addirittura richiesto essere persona»[40]. Da qui anche l’evidente interesse per tutti quegli spazi che favoriscono la Bildung della persona e che Zambrano individua in un concetto di “guida” che – oltre alle Confessioni di Sant’Agostino e le Epistole di Seneca – ricorda anche il tema del Vorbild (modello, guida, maestro) su cui aveva insistito Scheler proprio negli ultimi anni di vita. Ma in Zambrano riemergono pure le riserve di Scheler e Ortega nei confronti di una fiducia incondizionata nella democrazia: la democrazia di massa non è, di per sé, la fine della storia sacrificale, ma ne può rappresentare al contrario un nuovo e più avvilente stadio. Solo ripensando una connessione fra democrazia e persona è possibile sperare in un altro inizio rispetto alla storia sacrificale: «È la parola “persona” a integrare oggi la costellazione della parola “democrazia”».
Ma come la integra? Il motto nato con la rivoluzione francese era: Liberté, Égalité, Fraternité. Ognuno di questi tre termini, preso isolatamente e assolutizzato, porta inevitabilmente a una degenerazione della democrazia. La Bildung della persona può diventare il fulcro di una nuova relazione, di una nuova democrazia. Nei fatti rappresenta probabilmente l’ultimo momento eversivo nei confronti della dilagante democrazia dell’allevamento mediatico di massa.

10. Ausgleich come solidarismo: oltre il relativismo
Dei tre termini del motto, quello oggi più disatteso è sicuramente l’ultimo, la fraternità, ma è proprio quest’ultimo che può trovare nuovo slancio dal tema della Bildung della persona. Nella prospettiva della persona “fraternità” è prima di tutto “solidarietà”. È possibile concepire, nell’epoca della liquidità postmoderna, una qualche forma non banale di solidarismo?
A sostegno di tratti di continuità fra il periodo intermedio e l’antropologia filosofica dell’ultimo periodo di Scheler va sottolineato che così come la teoria della Bildung affonda le proprie radici in quella dell’Ordo amoris, altrettanto quella dell’Ausgleich è debitrice nei confronti di quel “principio di solidarietà” enunciato da Scheler fra il 1915 e il 1916 in Absolutsphäre und Realsetzung der Gottesidee (cfr. X, 235)[41]. Il “principio di solidarietà” permette di capire come sia possibile una forma di Ausgleich che non miri al livellamento, ma al contrario al rafforzamento delle differenze qualitative e alla formazione dell’identità personale. Nel solidarismo è presente una forma di incremento delle differenze qualitative che paradossalmente rafforza anche il concetto di fraternità, salvandolo dalle sue interpretazioni più banali.
Il presupposto è implicito nella tesi esplicitata nel Formalismus secondo cui «i valori sono tanto più “elevati” quanto meno “divisibili”, cioè quanto meno debbano essere suddivisi fra coloro che ne partecipano» (II, 110). In questo senso das Heilige (ciò che salva), quale vertice della gerarchia dei valori, è «la modalità di valore più in-divisibile in quanto è la più con-divisibile» (II, 542). Al contrario i valori meno elevati, come quelli del piacevole-spiacevole o dell’utile-dannoso, risultano massimamente divisibili e pertanto minimamente con-divisibili.
Si tratta di un’intuizione che merita di essere sviluppata. I portatori di un valore piacevole (per esempio il pane) o di un valore utile (una risorsa materiale come il petrolio) possono essere goduti solo se spartiti, e quindi contesi; al contrario il valore soterico del sacro (che distinguo da quello sacrificale di Girard) può essere con-diviso in uno sforzo solidaristico comune senza essere suddiviso. Utilizzando l’idea di una con-divisione senza suddivisione, propria dei valori personali, è possibile ipotizzare un rovesciamento della logica oppositiva della vita, in quella che propongo di chiamare una “polarizzazione delle differenze”.
Normalmente con polarizzazione s’intende un processo di uniformizzazione in cui tutte le differenze sono ricondotte a due poli opposti, ma in realtà con polarizzazione è possibile intendere ogni processo in cui si verifichi una concentrazione di proprietà verso un numero a piacere di punti, detti appunto poli. In questo senso il processo di formazione personale è un processo grazie al quale una individualità si polarizza, cioè si distingue, si differenzia ed emerge acquisendo una orientatività privilegiata. La con-divisione di un valore superiore polarizza, cioè individualizza ulteriormente chi prende parte a quella condivisione. Questo perché l’atto della con-divisione dell’in-divisibile coincide con il processo di formazione della propria identità. Raggiungendo una forma di esistenza esemplare una persona la rende automaticamente con-divisibile, nel senso che più partecipa e perfeziona quell’esemplarità, più la rende disponibile alla con-divisione.
Più una nazione consuma petrolio, meno petrolio sarà disponibile per le altre nazioni, maggiore sarà la lotta per la sua contesa, maggiore sarà l’uniformizzazione. Più con-divido un valore superiore, più la mia singolarità prende forma, più divento esemplare, più promuovo l’ulteriore con-divisione di quel valore. Più San Francesco esperisce il valore del sacro, più il valore del sacro diventa accessibile e con-divisibile per l’umanità. A ben vedere le varie forme di fanatismo religioso sono lotte per contendersi non un valore infinito-indivisibile come il sacro soterico, bensì beni limitati che si possono usufruire solo in senso distributivo, come lo sono i simboli oggettivati di un sacro ridotto a idola. Non mirano a con-dividere il sacro, ma a stendere il proprio stendardo sui simboli del potere.
L’equivoco è quello di scambiare l’identità personale con l’identità noicentrica dell’Io. Peculiare all’identità personale è la capacità di oltrepassare la prospettiva solipsistica e, attraverso l’esemplarità della realizzazione esistenziale, rettificare il proprio désordre du cœur. Questo momento rettificante, presente nel principio solidaristico, è il principio cercato alla base della globalizzazione positiva. In quest’ultima non si tratta di ammucchiare diversi punti di vista e nemmeno di distillarne una sintesi hegeliana, ma piuttosto di farli interagire con un duplice effetto: la rettificazione del proprio disordine solipsistico e un processo solidaristico volto a promuovere un progressivo e sempre più approfondito svelamento del mondo valoriale. Il confronto produttivo capace di incrementare le differenze qualitative ha in sé ambedue i momenti: contro ogni forma di relativismo viene confermato il valore del punto di vista personale, questo tuttavia, contro ogni forma di soggettivismo, può assurgere a un’esemplarità universale solo nella misura in cui viene rettificato e svuotato dal proprio solipsismo. Qui l’universalità coincide con l’esemplarità della propria rettificazione. Un esempio icastico di questo processo è stato raffigurato da Giotto, nella Basilica superiore di Assisi, nella scena in cui Francesco dona il proprio mantello a un povero. San Francesco si veste d’esemplarità (l’aura), spogliandosi del proprio mantello.
Perché solidarismo? L’impostazione kantiana cercava di guadagnare un punto di vista universalmente valido presupponendo un’unica ragione eternamente costante, finché, a partire da Dilthey, si è scoperto che le categorie di questa ragione assomigliavano pericolosamente alle categorie culturali dell’uomo europeo, con il conseguente rischio di ricadere in una qualche forma di etnocentrismo. La sfida consiste nel concepire un mondo valoriale infinito che non può darsi in modo apodittico, e il cui progressivo svelamento richiede la cooperazione e la convergenza solidaristica di tutte le infinite “verità personali”.
Il punto di svolta si verifica solo distinguendo la prospettiva individuale dal soggettivismo. È quello che fa Scheler in L’eterno dell’uomo quando esplicita la teoria dell’insostituibilità (Unersetzlichkeit): «ogni punto del flusso concreto degli eventi del mondo può di per sé trasformarsi nel trampolino di lancio per cogliere essenze che nessun altro punto […] sarebbe in grado di cogliere» (V, 202). Queste “puntualità polarizzate” sono le individualità storiche e culturali ma se ognuna di esse è l’unico trampolino di lancio verso determinati dati essenziali, ne consegue che esse risultano insostituibili. Anche riconoscendo l’esistenza fra di esse di diversi gradi di rilevanza e valore, nessuna “puntualità polarizzata” può essere pregiudizialmente negata e pertanto l’incremento del sapere essenziale è possibile solo attraverso la cooperazione (Kooperation) di tutti gli uomini e l’accordo (Miteinander) delle differenti conoscenze[42]. Una globalizzazione come ricerca e integrazione dei nuovi dati essenziali si sviluppa nella forma di un solidarismo capace di valorizzare le differenze qualitative.
Ne consegue inoltre che non è nelle disponibilità del soggetto decidere quali valori cogliere o per quale Weltanschauung optare[43], piuttosto è l’individuo a venir scelto dai valori che si materializzano nell’orientamento del suo ordo amoris: l’individuo costituisce la propria identità proprio nello sforzo solidaristico di offrire esemplarmente quelle sfumature di valore o quei valori che solo il suo punto di vista axiologico rende inizialmente accessibili. Se un insieme di dati essenziali è inizialmente accessibile solo da una determinata prospettiva axiologica individuale, allora il prospettivismo personale non è una costruzione soggettiva, ma al contrario la risorsa su cui si fonda l’identità personale.
Tuttavia come sincronizzare e integrare questi frammenti di verità personale per ottenere un’immagine complessiva sempre più approfondita? Insistere sul cosmopolitismo multiculturale rischia di ricondurre a un nuovo percorso autoreferenziale. Piuttosto, una volta riconosciuta dignità alla prospettiva personale, va posto il problema di una liberazione dai fenomeni di distorsione che la caratterizzano: l’individuo cessa di proiettare tutt’intorno l’immagine falsante degli idola del proprio egocentrismo, e quindi riesce a cogliere qualcosa oltre il se stesso, solo attraverso un processo kathartico di svuotamento dalle proprie ideologie. In questa prospettiva il dialogo ecumenico interreligioso dovrebbe da un lato mirare a rafforzare le differenze essenziali fra le varie religioni e dall’altro tendere ad annullare le distinzioni più legate alla logica mondana, etnocentrica.
Questo processo di riposizionamento esistenziale può essere fatto con una tale precisione e assolutezza da raggiungere la perfezione di un’esemplarità valida universalmente. Alla base c’è una sincronizzazione, una rettificazione, nel senso di Agostino, che trasforma il désordre du cœur in ordo amoris. Per questo è possibile un doppio movimento: l’avanzamento nel disvelamento del mondo valoriale e l’avanzamento nel processo di Bildung del proprio ordo amoris. Di conseguenza l’esemplarità può assurgere a una validità interpersonale proprio nella misura in cui promuove in modo pluralistico la singolarizzazione delle persone che contagia. Questa rettificazione è Ausgleich, cioè un riequilibrio che produce nell’individuo differenze qualitative: la logica oppositiva della prima globalizzazione si rovescia nella logica solidaristica della seconda globalizzazione, in grado di produrre un accrescimento delle differenze qualitative, nella misura in cui dà spazio e promuove la Bildung della persona.




Parte III
dall'articolo on-line: "Le domande dell'antropologia filosofica", 2010



5. Le nuove domande dell’antropologia filosofica
Le vecchie domande dell’antropologia filosofica riguardano l’opposizione fra spirito e vita e l’intuizionismo dei valori, le nuove domande si rivolgono invece alla novità ontologica rappresentata dal processo trasformativo della persona. La persona implica il definitivo superamento di una “ontologia del possibile” tutta intenta a concepire il reale come la realizzazione ed esplicitazione teleonomica di un programma già definito. In questo senso ogni uomo, ogni persona rimane “non esauribile” in quanto il suo processo di trasformazione non consiste nel dispiegamento di un’essenza, ma nel dar forma a un nuovo inizio. L’uomo è l’essere che nel patimento del “vuoto promettente” e dell’abbandono inaugura un nuovo percorso esistenziale volto a ottenere una pienezza d’essere al di fuori del modello e della logica che dirige il desiderio mimetico. La sua essenza, se di essenza si può ancora parlare, è la matrice del percorso ontologico con cui la persona, deviando, si distacca dallo sfondo abitudinario.
Perché il problema della trasformazione rappresenta il punto di partenza? Che cosa significa che l’uomo ha bisogno di formarsi? L’antropologia filosofica del XX secolo ruotava ancora attorno alla tesi dell’uomo come l’essere biologicamente deficitario. È su questa questione che si è tentato di tracciare una differenza con l’animale. Alsberg, anticipando genialmente la teoria del cybor, affermava che l'uomo è l'essere che modifica il proprio corpo dando origine a un'evoluzione extraorganica, Gehlen sosteneva invece che l'uomo è l'essere che trasforma il proprio ambiente, l'essere che grazie alla categoria dell’esonero sopravvive creando un ambiente artificiale.
E se invece l’uomo fosse caratterizzato da una mancanza di tipo diverso? Se fosse l’essere da disciplinare non perché nato biologicamente immaturo ma piuttosto culturalmente incompiuto? Se ciò che caratterizza l’uomo non consistesse nell’abilità a modificare tecnologicamente il proprio corpo o a erigere un ambiente artificiale, ma piuttosto nel dar forma a una seconda natura attraverso quel particolare sapere che gli antichi chiamavano cura sui? E in tal caso come si caratterizzerebbe oggi questo sapere della cura sui volto alla trasformazione della persona? Esistono delle caratteristiche, delle problematiche proprie di questo processo che riguardano necessariamente ogni essere umano, indipendentemente dall’epoca storica e dal contesto sociale e culturale in cui è vissuto? Se la cultura è, nel suo momento dinamico, prodotto della cura sui, non potrebbero essere proprio tali categorie a gettare le basi per la comunicazione, fornendo così quegli strumenti indispensabili per confrontarsi con i problemi del pluralismo culturale?
È  ancora proponibile oggi il tema di una grammatica affettiva universale dell’esser persona dopo il definitivo superamento dell’etnocentrismo? Ciò che va rivalutato nella fenomenologia di Scheler è senz’altro la differenziazione fra le diverse classi di valori e i diversi strati affettivi. Qui c’è la grande intuizione di una differenza qualitativa, capace ad es. di cogliere l’irriducibilità della dannazione o della disperazione rispetto alla sofferenza causata da un mal di denti. Oggi invece si sta imponendo la prospettiva livellante secondo cui le “emozioni complesse” sarebbero scomponibili in “emozioni basilari”, tanto che queste, combinandosi fra loro come gli elementi chimici, esprimerebbero tutta la gamma della vita affettiva umana.[i] Ora che ci sia un insieme di emozioni caratteristiche di tutto il genere umano è sostenuto anche nella tesi della grammatica affettiva universale alla base dell’antropologia filosofica di Scheler, come anche nelle analisi sul riso e il pianto di Plessner,[ii] ma questo non implica che tali emozioni basilari debbano far tutte parte della stessa sfera affettiva. In questa direzione già Plessner affermava che il riso e il pianto sono forme espressive tipicamente umane. È chiaro che poi nella cultura giapponese assumeranno forme diverse da quelle rintracciabili nella cultura europea, ma la storicità e la relatività riguarderà solo il modo di dar forma a tale capacità espressiva, non la capacità espressiva in quanto tale. Allo stesso modo sarebbe possibile individuare le categorie universali proprie della trasformazione della persona?
Qui mi limito ad anticipare schematicamente il nucleo di un’ipotesi al centro di un’ontologia della persona che è ancora in fieri: la trasformazione della persona avviene nel senso della rinascita attraverso l’esemplarità e ambedue sono possibili solo quando la persona si rapporta come totalità incompiuta ai propri atti. La persona, compiendo l’esperienza di un “vuoto promettente” e spinta da un bisogno innovativo di essere, si scopre l’essere incompiuto che non può dar forma alla propria identità nelle modalità tipiche dell’intrascendenza egologica, ma solo portando a compimento una seconda nascita. Un secondo parto che si realizza attraverso la rottura e la fuoriuscita dalla sfera della propria chiusura autoreferenziale grazie all’aiuto maieutico dell’esemplarità altrui. Dal momento che il problema della costituzione dell’identità personale coinvolge tutti gli uomini – indipendentemente dalla cultura, dall’epoca storica e dalla società in cui vivono – atto, rinascita ed esemplarità possono essere proposte come invariabili della persona umana.
Non solo la categoria dell’esemplarità si propone come universale, in quanto presente in ogni processo di formazione dell’identità personale, ma possono anche darsi esemplarità che si danno in modo universale. Un’esemplarità è universale nella misura in cui riesce a trasformare ogni individuo che tocca, suscitando però in ognuno di essi esiti distinti e originali. È la differenza essenziale fra modello ed esemplarità su cui ho già insistito altrove: un modello è universale nella misura in cui rende tutti un po’ più uguali, facendo ripetere le stesse cose secondo una identica procedura, invece un’esemplarità è universale nella misura in cui rende tutti un po’ più unici, motivando ciascuno a seguire un diverso percorso di trasformazione esistenziale.[iii] Certo il modello non è riducibile a una mimesi meccanica, ed è in grado di offrire le regole di comportamento necessarie al funzionamento di qualsiasi sistema sociale. Ma non è ad esso che fa riferimento la trasformazione della persona.
Attraverso il percorso della trasformazione, la persona diventa l’essere che trascende la chiusura ambientale di von Uexküll e si apre al mondo fino a cogliere l’aprirsi del mondo stesso. Con questo nuovo sguardo negli occhi, in cui si realizza una deviazione decisiva dalla prospettiva predominante, la persona si distingue dall’Io. O meglio: non è un ente astratto che si limita a osservare il mondo da un nuovo punto di vista. La persona è piuttosto un modo particolare d’incarnarsi posizionalmente nel mondo: alla corporeità della persona corrispondono infatti specifici strati affettivi che seguono una logica profondamente diversa dagli strati affettivi che dirigono l’Io. È attraverso questa nuova corporeità affettiva che la persona riesce a vedere il mondo oltre il riflesso dei propri bisogni e dei propri interessi. Essa non avanza più nel mondo solo fin dov’è possibile proiettare la pienezza dei propri schemi, fin dove fanno leva e risultano efficaci le categorie della rilevanza che dirigono i propri interessi. Ora la persona avanza oltre nel mondo proprio grazie allo svuotamento dei meccanismi di rilevanza selettiva che producono l’orizzonte abitudinario, quella mappa mentale di familiarità entro cui l’Io si muove usualmente senza guardare effettivamente ciò che lo circonda. Ciò di cui fa esperienza la persona non è immediatamente ricondotto al già noto e neppure inchiodato, attraverso una serie d’interrogazioni, a un preciso schema di rilevanza, ma piuttosto viene lasciato libero di esprimersi oltre il contesto usuale dell’autoreferenzialità dell’osservatore.
Dinnanzi a questa trasformazione del modo di guardare le cose, si apre la dimensione etica ed estetica in cui diventano accessibili quegli aspetti del reale normalmente insignificanti per il sapere abitudinario e scientifico: la singolarità irripetibile, il volto della persona amata, la bellezza di un fiore, il significato etico del dolore, l’intenzione tradita da un gesto apparentemente insignificante. È su questi particolari “secondari” che è possibile tentare di ricostruire quella razionalità della persona che può determinare il senso complessivo di un’esistenza.


6. L’antropologia filosofica nell’epoca della liquidità postmoderna
Dunque un’antropologia della Bildung. Ma a che cosa serve oggi una tale antropologia? Nella riscoperta delle tematiche legate alla cura sui e alle tecniche di trasformazione e realizzazione non vedo una forma di ripiegamento narcisistico nella sfera intima, conseguente alla crescente impotenza dell’individuo nei confronti di una società sempre più complessa. Al contrario mi pare che il problema dell’identità personale possieda un’immensa carica eversiva nei confronti delle tecnologie e dei dispositivi di eterodirezione dell’opinione pubblica.
La rinascita e l’esemplarità implicano una forma di orientatività non arbitraria: ma non è forse del tutto anacronistico parlare ancora di meta-orientatività nell’era della liquidità postmoderna? Charles Taylor, con la teoria delle strong evaluations, riconosce esplicitamente che la questione del meta-orientamento è centrale nel processo di costituzione dell’identità.[iv] La formazione dell’identità ha a che fare col problema di punti di riferimento forti, in quanto è nella loro scelta che esprimo chi sono. Se ne deduce che il valore di una società si misura sulla qualità del meta-orientamento che produce. Ma come funziona l’orientamento nella liquidità postmoderna? Qui si tocca un nervo scoperto: l’illusione che l’esigenza di punti di riferimento non autoreferenziali sia solo il residuo di una “mentalità primitiva”. Come porre allora il problema dell’orientamento dopo l’annuncio nietzschiano della morte di “Dio” e oltre l’orizzonte della postmodernità, se le ideologie, con la loro pretesa di uniformità, e il nichilismo, con l’annullamento dei punti di riferimento, stanno portando al livellamento delle differenze qualitative? Se da un lato si affermano punti di vista dogmatici, da imporre eliminando il diverso, e dall’altro si negano gli stessi punti di riferimento, magari per assolutizzare surrettiziamente il proprio?
Il pensiero postmoderno riteneva che ci siamo già lasciati alle spalle l’epoca delle ideologie, funzionali al progetto di dominio della soggettività, e delle grandi narrazioni, che ottundevano l’uomo nella logica del pensiero magico. Secondo Jean-François Lyotard nella postmodernità l’uomo rimuove le meta-narrazioni e inizia a vivere con uno sguardo disincantato. In pratica le masse avrebbero finalmente capito l’indiscutibile verità implicita nell’annuncio di Nietzsche: non esistono verità indiscutibili, ma solo interpretazioni.
È lecito avanzare il sospetto che il pensiero postmoderno, nonostante le intenzioni, non sia riuscito a superare il progetto della modernità, ma abbia finito all’opposto col rappresentarne l’apice? Il postmoderno ha superato quella gabbia d’acciaio che Weber vedeva come esito della razionalità rispetto allo scopo? Che rapporto c’è fra il disincanto del mondo e quel politeismo dei valori in cui si finisce con il piegare il capo a uno dei nuovi idoli? Uscendo da troppe ambiguità: che valore attribuire al processo di desacralizzazione del mondo? Se questo è positivo, perché i suoi esiti non sono positivi? Perché questa persistente impressione che la società desacralizzata sia immersa ancora più di prima nelle categorie e nei ritmi del “pensiero magico”? Dove sono queste masse rese adulte e disincantate dalla desacralizzazione? La ribellione delle masse, descritta da Ortega y Gasset, non è forse una plateale smentita ante litteram della postmodernità? L’aver barattato la libertà promessa dalla modernità con la sicurezza non rappresenta la fine inequivocabile della meta-narrazione di Lyotard?
Di fronte a questi interrogativi è opportuno riconsiderare meglio le premesse del discorso postmoderno: fabulazione (mythos) e dominio razionale (logos) sarebbero i tratti distintivi di una modernità già superata. Ma affermare che non ci sono punti di meta-riferimento e che esistono solo interpretazioni non è, essa stessa, una ennesima grande fabulazione? E la liquidità dei punti di riferimento non è funzionale alle possibilità di imporre una standardizzazione dei modelli sociali di consumo? Non è cioè funzionale essa stessa a un progetto di dominio?
Molta parte del pensiero postmoderno ha tragicamente peccato in ottimismo. Ha pensato che i meccanismi tribali fossero circoscrivibili alle sole dimensioni del religioso e della metafisica. Invece essi sanno penetrare altrettanto efficacemente il pensiero scientifico, post-metafisico e laico, spostandosi con incredibile efficacia, parallelamente al processo di secolarizzazione.


7. La morte dell’ermeneutica: dal progetto umanistico all’allevamento mediatico
Se il barbaro sopravvive alle speranze del postmoderno ne risente anche l’orientamento della ricerca scientifica. Nella conferenza sull’Ausgleich del 1927 Scheler accenna a uno dei suoi temi più cari: il fallimento di quel disciplinamento che aveva formato l’uomo europeo coinvolto nel processo di industrializzazione. Un disciplinamento autoritario che per costringere l’operaio ai ritmi della fabbrica aveva obbligato a non dare più ascolto ai ritmi della propria razionalità affettiva, imponendo una “razionalità strumentale” priva di saggezza. Con il fine di sradicarlo dall’ordine del cuore, l’uomo moderno viene educato a dubitare della sfera affettiva e a vedere in essa solo l’origine del male e dell’errore. È un processo di analfabetizzazione affettiva di massa basato su di una forma di iper-razionalizzazione destinata a rovesciarsi dialetticamente nel suo opposto: una esplosione di irrazionalismo. Quello che Scheler vede è dunque una «sistematica rivolta pulsionale all’interno dell’uomo della nuova epoca, una rivolta contro la sublimazione unilaterale, contro l’eccessiva intellettualità dei nostri padri, contro l’ascetismo che essi hanno esercitato per secoli e le tecniche di sublimazione (quasi inconsapevolmente sviluppate) nel cui alveo è stato finora formato l’uomo occidentale».[v] Ma tale «rivolta della natura all’interno dell’uomo», nell’incapacità di trovare una nuova armonizzazione (Ausgleich), stava rapidamente degenerando sul piano culturale in nuove forme unilaterali di vitalismo irrazionalistico e di anti-intellettualismo. Un disprezzo generalizzato verso tutto ciò che ha a che fare con la ragione e lo spirituale e una esaltazione (per alcuni versi positiva), del corpo, dell’attività fisica, della giovinezza e del nuovo. Una rivolta delle pulsioni che in campo politico si esprimerà direttamente e senza alcuna mediazione nei movimenti dittatoriali di destra e di sinistra, a cui Scheler contrapponeva un lento processo culturale di ri-sublimazione dell’uomo volto ad armonizzare le ragioni dell’intelletto con quelle del cuore, l’apollineo con il dionisiaco, e «da operarsi nel singolo tramite l’educazione e nella specie tramite l’eugenetica sistematica».[vi]
Fu un tragico passo falso: proprio nel momento in cui denunciava l’incapacità della Bildung a orientare la democrazia di massa, Scheler continuava ingenuamente a sperare nella capacità di orientamento della Bildung nei confronti della ricerca scientifica. Di lì a qualche anno il progetto eugenetico del Kaiser-Wilhelm-Institut, appena fondato nel 1927 da Eugen Fischer e incautamente elogiato da Scheler, invece d’incanalare l’aggressività barbarica verrà a colludere proprio con uno di quei movimenti dittatoriali risolutamente condannati da Scheler. Quella che sembrava un’occasione offerta dalla scienza si trasforma inaspettatamente in uno dei peggiori incubi.
Pur in una temperie culturale completamente diversa, sono questi gli interrogativi che inevitabilmente pesano sulla celebre provocazione di Peter Sloterdijk quando, in Regeln für den Menschenpark (1999), constatando che nelle società di massa entra in crisi il progetto umanistico, basato sulla trasmissione del sapere attraverso la lettura e i dialoghi maieutici, propone un allevamento dell’uomo in base a una «genetische Reform».[vii] Dove il termine “allevamento” va inteso proprio positivamente, nel senso di una Züchtung o Domestikation genetica dell’Übermensch di Nietzsche. Di Regeln für den Menschenpark non condividevo l’ipotesi secondo cui la crisi dell’umanesimo possa essere fronteggiata indirizzando le energie e il sapere verso una antropotecnica della manipolazione genetica, quasi che si possa ritornare allo spirito di Paul Alsberg, quando vedeva nell’uomo la possibilità di sostituire i lenti e tortuosi ritmi dell’evoluzione naturale con quelli ben più rapidi ed efficienti dell’evoluzione extra-organica.
Il problema è che ora c’è già qualcosa che sta prendendo il posto del progetto umanistico. Rispetto a questo qualcosa la distinzione fra “media inibenti” e “media disinibenti”, proposta da Sloterdijk, rimane del tutto inadeguata. È vero: l’equilibrio millenario fra media umanistici inibenti e i media disinibenti (quelli che hanno come modello basilare i ludi circensi) è entrato in crisi a favore di questi ultimi e sta aprendo le porte a una nuove barbarie. Ma è sensato sperare di porre sotto controllo l’aggressività di questa nuova barbarie attraverso la manipolazione genetica, come suggeriva Sloterdijk? Non sarà piuttosto questa nuova barbarie che finirà col porre sotto controllo la manipolazione genetica?
 Che cos’è di preciso che si sta imponendo? La questione è centrale perché è a “questo qualcosa” che si affiderà il compito di attuare la soluzione auspicata da Sloterdijk nel 1999. Per comprendere “questo qualcosa” conviene innanzitutto indagare meglio i motivi della crisi dell’umanesimo nella società di massa, fino ad arrivare alla questione centrale, che è connessa alla crisi dell’ermeneutica. In Regeln für den Menschenpark c’era un doppio interrogativo che rimaneva senza risposta: chi tira i fili dopo che si è rivelata problematica la questione su chi educa l’educatore o forma l’élite? E prima ancora perché il progetto educativo “umanistico” è fallito? Il progetto di un dialogo maieutico per pochi eletti si è gradualmente trasformato in scolarizzazione di massa. Ma la scolarizzazione di massa non ha avuto come modello un processo formativo imperniato sulla figura carismatica del Maestro, bensì si è ridotto a trasmissione autoritaria di informazioni da parte di semplici impiegati del sapere. Il progetto è fallito perché l’informazione ha azzerato ogni momento formativo basato sull’esemplarità. Tuttavia almeno nella scolarizzazione era preteso un minimo di fatica ermeneutica. Quello che si sta profilando all’orizzonte è invece l’emarginazione forzata anche dell’ermeneutica e la sua sostituzione con un allevamento dell’identità dell’Io che ricorda, questo sì, le logiche dell’allevamento di animali all’ingrasso.
Che cosa ha preso il posto dell’ermeneutica? Guardiamo a quello che è avvenuto all’opinione pubblica. Come misero in luce Tocqueville prima e Ortega y Gasset poi, la democrazia non è affatto indenne da gravi patologie. Nel corso del XX secolo l’opinione pubblica è stata sostituita da un’opinione di massa composta da un insieme di individui passivi e atomizzati. Se nella modernità l’identità si costituiva nello sforzo della produzione materiale ed ermeneutica, sorretta dall’ideale ascetico, nella tardomodernità[viii] l’identità dell’individuo “liquido” non si costituisce in un’attività lavorativa sempre più precaria, quanto nel consumo di immagini mediatiche, fruibili senza alcuna fatica ermeneutica perché già predisposte e “metabolizzate” da altri. Il trionfo mediatico dell’immagine coincide con l’eclissi dell’ermeneutica, che appartiene ancora alle vecchie categorie moderne della produzione e non a quelle del consumo. L’immagine mediatica priva di aura viene consumata, non interpretata. E non ha neppure bisogno di scolarizzazione. Proprio l’uomo atomizzato di massa, immerso in una realtà virtuale estraniante, sarebbe allora l’esito coerente della liquidità postmoderna, e la stessa postmodernità non sarebbe altro che una forma di tardomodernità capace di suscitare facili entusiasmi solo perché mascheratasi nelle vesti fabulatorie del superamento della modernità.
È vero che vi è stato un passaggio dall’identità umana come dato a quella come compito,[ix] ma tale compito è stato delegato alla libertà di scelta, all’autoprogettualità, cioè è stato nuovamente focalizzato sull’identità autoreferenziale dell’Io a scapito dell’identità personale. Infine tale compito è stato neutralizzato e ricondotto nuovamente al dato quando l’individuo, di fronte a un eccesso di possibilità di scelta rispetto alla propria complessità, è entrato in crisi d’identità, dissipandosi secondo le classiche leggi delineate da Luhmann a proposito dei sistemi autopoietici. A questo punto l’automatismo inerziale al consenso – che nell’orientamento della modernità veniva ottenuto mediante le istituzioni tradizionali e autoritarie – nell’orientamento della tardomodernità viene indotto offrendo mediaticamente contenuti intenzionalmente strutturati per essere immediatamente fruibili: si tratta di un numero elevatissimo d’informazioni, stimoli e immagini che emergono dal flusso continuo del sapere mediatico con un effetto a bombardamento.
Questo effetto dipende dal fatto che nel circolo funzional-mediatico le immagini offrono contenuti assimilabili senza alcun sforzo ermeneutico: l’ermeneutica di Gadamer è importante per la comprensione di un testo filosofico, ma non per usufruire di un programma d’intrattenimento televisivo. Per leggere un dialogo di Platone posso accedere a determinate informazioni solo compiendo un notevole sforzo di comprensione, i mass media invece mi offrono direttamente le immagini all’interno di un contesto apparentemente ovvio e senza presupposti, esonerandomi dalla fatica interpretativa e offrendomi in pratica un contenuto “culturale” preconfezionato. È come se qualcuno avesse letto il libro al mio posto consegnandomi i risultati dei suoi sforzi, ma anche traendo le conclusioni al mio posto: l’esonero dal momento ermeneutico comporta l’appiattimento sugli stessi risultati e la scomparsa del senso critico. Inoltre la programmazione televisiva si regola in base a sondaggi d’opinione di modo che l’individuo liquido, trovandosi davanti la rappresentazione fantasmatica di ciò che cercava, ha automaticamente una falsa impressione di verità e oggettività.
Il pensiero magico è stato reintrodotto nella fruizione uniformante di un circolo funzional-mediatico di immagini autoreferenziali che blocca progressivamente qualsiasi spazio di comunicazione reale a favore di un consenso sociale sempre più efficacemente eterodiretto. Il pensiero postmoderno ha focalizzato la propria attenzione sul processo di liquefazione, spesso compiacendosi di trovare in esso la presunta dimostrazione del proprio credo nel disincanto dell’uomo. Esso invece riguardava solo le risorse e gli strumenti a disposizione della formazione personale, la sola capace d’istillare forme d’identità controfattuali, non le strutture aziendali preposte ai processi di ristrutturazione e controllo dell’opinione di massa. La nostra società è sempre più liquidamente decentralizzata nell’atomizzazione dell’opinione di massa, ma sempre più solidamente ed efficacemente ipercentralizzata nella sua eterodirezione.
È qui che il problema dell’incompiutezza della persona si connette drammaticamente a quello del meta-orientamento. L’uomo è l’essere che, uscendo dalla chiusura ambientale ed esponendosi all’apertura, è costretto a dare forma a una nuova esistenza, ma nel dar forma a questa seconda natura non può rifarsi ai modelli della vecchia vita e ha bisogno dell’orientatività della nuova vita, quella basata sull’esemplarità. Se abbandona la vecchia orientatività senza trovare la nuova ricade inevitabilmente in una zona franca, sottratta postmodernamente all’influenza del meta-orientamento. La liquidità postmoderna è l’espressione concreta di questa zona franca in cui a una minoranza privilegiata si aprono le porte dell’estetismo e alla maggioranza quelle dell’allevamento mediatico di massa.
Man mano che l’allevamento mediatico dell’Io celebra la sua apoteosi, i saperi relativi alla trasformazione della persona diventano sempre più rari e incerti. Lasciato postmodernamente in una situazione priva di stimoli valoriali e di orientamento esemplare, l’uomo regredisce antropologicamente all’Io auto-referenziale atrofizzando rapidamente il proprio esser persona. È in questa situazione che si apre la prospettiva della manipolazione genetica avanzata da Sloterdijk. Questa non può essere una soluzione, per il semplice fatto che presuppone proprio quella “saggezza” che viene a mancare con l’eclissi degli spazi a disposizione della Bildung.
Voglio subito precisare che la tesi del postumano mi sembra mal posta, in quanto rischia ancora una volta di fraintendere in senso statico l’esser uomo, identificandolo nei fatti con un determinato prodotto storico del divenire umano, oppure con la sua attuale struttura biologica. Già Alsberg aveva slegato l’essere umano dall’homo sapiens, affermando la sua indefinibilità biologica, e ipotizzando che la sua identità si costituisse piuttosto nell’essere il creatore dell’organismo cibernetico, qualunque forma materiale riuscisse a darsi. Allo stesso risultato si arriva concependo l’uomo come il gesto che trascende la chiusura ambientale dando forma a una nuova esistenza.
L’aporia della manipolazione genetica è piuttosto quella, da tempo sottolineata, di una crescente forbice fra lo sviluppo delle potenzialità della ricerca scientifica e una consapevolezza umana che rimane praticamente invariata nel corso dei secoli. Chi decide, e in base a quali criteri, che cosa realizzare di ciò che risulta tecnicamente possibile? Il problema non è quello, anacronistico, di contrastare una ricerca scientifica inarrestabile, ma di capire se la scienza possa procedere scissa da quella consapevolezza umana da cui è comunque sorta. Che cosa succede alla scienza se questa forbice va oltre un certo limite? È in grado la scienza, in quanto scienza, di produrre al suo interno una qualche forma di “saggezza” e consapevolezza etica o finirà inevitabilmente con l’adeguarsi, per quanto riguarda la razionalità dei fini, al senso comune e alla morale dominante?
Qual è la qualità del senso comune in cui viviamo? Nell’attuale zona franca della liquidità postmoderna si sta affermando il senso comune prodotto dalla logica dell’allevamento mediatico dell’Io, in assenza di un correttivo è a esso che si farà quindi riferimento per stabilire le direttive della manipolazione genetica. Per evitare di affrontare la manipolazione genetica dal punto di vista di un’umanità che ha atrofizzato il proprio centro personale bisognerebbe ritornare a occuparsi, con la massima urgenza, della cura sui.
Ora è interessante notare che nella sua recentissima fatica, apparsa a dieci anni di distanza da Regeln für den Menschenpark, Sloterdijk si ponga il problema di un “imperativo trasformatore” volto a promuovere il cambiamento della propria esistenza grazie a una tensione verticale, nel senso di un’antropologia dell’“esercizio” al miglioramento, un’antropologia dell’uomo come “übendes Wesen”.[x] Si tratta di un ripensamento in chiave antropologica delle tecniche di trasformazione del sé di Foucault e soprattutto degli esercizi spirituali di Pierre Hadot e del meno noto Paul Rabbow,[xi] sviluppato anche mediante un’incursione nelle pratiche ascetiche e meditative orientali. Senonchè quel titolo, ripreso da un versetto di Rainer Maria Rilke, Du mußt dein Leben ändern, anche se vagamente kantiano, finisce involontariamente col richiamare alla memoria la metanoia cristiana e col suggerire indirettamente una maggiore complessità nell’analizzare il rapporto, già colto del resto anche da Rabbow e Hadot, fra religione ed esercizi spirituali. In ogni caso, al di là dei limiti e dei pregi insiti dell’ultimo lavoro di Sloterdijk, a trarne nuovi stimoli e impulsi sono proprio le antropologie che muovono in direzione della cura sui.
8. Cura sui e alfabetizzazione affettiva
Il problema all’origine di tutto rimane la crisi di orientamento. E qui bisogna procedere veramente in punta di piedi. Perché il XX secolo ha potuto chiamarsi “figlio di Nietzsche”? Perché il pensiero postmoderno nonostante tutto affascina? Le parole dell’ideale ascetico erano diventate consumate. La morale un insieme di formule vuote e ipocrite. Più le vecchie autorità alzavano il tono della voce, meno risultavano udibili. In pratica già allora la trasmissione del sapere era stata affidata a un apparato burocratico che si limitava a riprodurre meccanicamente un modello, già allora si era verificata una scissione fra progetto educativo e formazione dell’uomo. Non si tratta allora di ritornare indietro rispetto all’annuncio di Nietzsche, ma di ricongiungere trasmissione del sapere e formazione dell’uomo in un percorso alternativo al relativismo nichilista e al dogmatismo etico.
Dietro la trasformazione della persona non c’è neppure quell’impossibile comunità operosa, giustamente criticata da Jean-Luc Nancy in quanto dedita alla realizzazione integrale di una pretesa essenza dell’uomo già definita a priori.[xii] La trasformazione istillata dall’esemplarità è infatti pluralista e indeterminabile. Tuttavia non si ferma neppure oziosamente di fronte al nulla di quella che ho precedentemente designato come “zona franca”. Che cosa permette di superare questo nulla? Sarebbe ingenuo pensare che la fragilità dell’attuale quadro d’orientamento complessivo sia semplicemente dovuta all’incapacità di elaborare una nuova teoria etica convincente. Qui si rimarrebbe invischiati in una evanescente e interminabile contrapposizione fra dogmatismo e postmodernità. La crisi d’orientatività deriva piuttosto da una disattivazione, a livello di massa, degli strati affettivi più profondi della persona, i soli in grado di produrre quella orientatività che dà forma e realizza l’eccedenza propria dell’uomo. È sulla base di questo orientamento affettivo, acceso e curato dall’esemplarità, che si avvia quel processo di formazione che porta alla costituzione dell’identità personale. Senza aver formato se stessi a livello personale non è possibile impostare un dialogo con l’altro da sé, non è possibile neppure mediare culturalmente la propria aggressività pulsionale.
Quella che è stata indicata come una vera e propria emergenza educativa nasce nei confronti di una sempre più diffusa carenza di saperi e di esperienze circa le tecniche atte a riattivare e portare a maturazione gli strati affettivi della persona. Ma nella società dell’allevamento dell’Io lo spazio riservato alle tecniche del risveglio degli strati affettivi della persona viene progressivamente ridotto inducendo un crescente analfabetismo affettivo.
Ma da dove deriva questa disattenzione e dimenticanza verso se stessi? L’ultimo Foucault  ha reinterpretato il rapporto fra maestro e allievo attraverso quella nozione di “epimeleia heautou” di origine platonica che i latini tradussero con “cura sui”, e che dà origine a una storia molto diversa da quella del famoso “conosci te stesso”. Mentre nel “prendersi cura di sé” l’uomo ha cercato di sviluppare un metodo rivolto interiormente alla purificazione dell’individuo, in modo da renderlo degno di ricevere la verità, nel “conosci te stesso” l’attenzione si è spostata alla purificazione della conoscenza: il soggetto, vantandosi già pronto, non lavora più su se stesso ma sul modo di conoscere l’oggetto. Tutto si riduce a un problema di teoria della conoscenza slegato dalla formazione dell’individuo, tanto che la verità diventa accessibile a tutti, solo che vengano correttamente applicate le procedure del metodo cartesiano. Si è poi visto che, in uno stadio successivo, l’individuo di massa presume non solo di essere già pronto a ricevere la verità, ma anche di poterla miracolosamente apprendere nella rivelazione mediatica in modo diretto, senza alcuno sforzo ermeneutico.
Ma ritorniamo a Foucault: riferendosi a Seneca  paragona lo spirito umano a un corpo fisico flessibile, che essendo incurvato va raddrizzato con il disimparare.[xiii] Ebbene dove trovare la fonte capace di ispirare questo raddrizzamento, questa rettificazione? Il “prendersi cura di sé” mira alla trasformazione del sé, anche attraverso una messa in discussione del già appreso e della forma mentis iniziale; l’assolutizzazione del “conosci te stesso” conduce invece all’assolutizzazione delle storture del soggetto.
Si può osservare che il “conosci te stesso” rimane in sintonia con la logica del bisogno di certezze dell’Io, mentre la “cura sui” è più congeniale all’incompiutezza della persona e quindi alle logiche della sua trasformazione. In altri termini la predominanza del “conosci te stesso” nella cultura occidentale sarebbe una conseguenza di una progressiva atrofizzazione della persona e del suo essere aurorale.
Per molti aspetti i problemi fondamentali della filosofia deriva dalla tendenza, insita nell’uomo, ad assentarsi in modo prolungato dagli strati affettivi della persona, oppure dal non alimentarne a sufficienza la crescita, rimanendo in una situazione di immaturità affettiva. L’atrofizzazione del livello affettivo personale comporta la progressiva predominanza di quello psichico , particolarmente influenzabile dalle tecnologie di manipolazione sociale del sé, con l’inevitabile appiattimento sui modelli di comportamento conformistici .
La produzione di stili di vita su misura, portatori di un’istanza di realizzazione personale, differisce da quella indotta social­mente dai modelli dominanti, e può provocare gravi conflitti nei ri­guardi delle aspettative che gli altri hanno nei miei confronti: di conseguenza li vivrò come fattori di disturbo e tenderò a “disattivarli” e rimuoverli; seguendo questa deriva otterrò una completa dissipazione del livello affettivo personale consegnando le redini della mia esistenza all’Io, che però è tutto affaccendato nell’ottenere il ricono­scimento altrui. Se oriento la mia vita in base all’Io, finisco con il vivere attraverso gli occhi della gente che mi circonda: giudico un’azione , assaporo la vita, compro un prodotto, esprimo una preferenza politica, sento un profumo solo dal punto di vista del modello dominante .
Ciò in senso radicale: io non nascondo la mia vera identità dietro una maschera, piuttosto io stesso sono diventato esattamente quello che gli altri vedono di me. Sostengo un ordinamento esistenziale solo formalmente “mio”, ma in realtà deciso da qualcun altro per me. Una forma di non-essere che non ha nulla da invidiare all’esistenza letargica denunciata da Socrate . Il pericolo è quello di arrivare alla fine dei propri giorni accorgendosi improvvisamente che ad aver vissuto non sono stato io, bensì solo l’opinione che gli altri avevano di me o il ruolo che mi avevano imposto. Per guarire da tale danno e vivere la mia vita, l’unica risorsa che ho a disposizione è la riat­tivazione degli strati affettivi più profondi, quelli capaci di produrre ordini esistenziali controfattuali grazie al superamento, nell’esemplarità, della propria intrascendenza .


IV parte
Riprendo alcune pagine da:
L'esemplarità aurorale, Saggio introduttivo a:
M. Scheler, Modelli e capi, Milano 2011, pp. 7-11


1. L’esemplarità come nuovo punto di partenza
Nel corso del Novecento il tema dell’esemplarità è rimasto sostanzialmente relegato nell’ambito teologico ed estetico. Fra le poche eccezioni spiccano i nomi di Max Scheler, María Zambrano, Hannah Arendt[1], Luigi Pareyson[2] e dell’ultimo Foucault[3]. La mia attenzione si è diretta a una forma di esemplarità personale rintracciabile nei testi di Scheler e Zambrano ma ripensata poi anche con l’aiuto di Foucault. Questa esemplarità è aurorale e ontologicamente innovativa nei confronti di un processo di formazione (Bildung) e trasformazione (Umbildung) della persona che si svolge alle spalle di ogni teoria del giudizio e che va distinta dalla semplice riproduzione di un modello tipico. Mentre l’esemplarità è una forza che si muove nel senso di quelle che l’ultimo Foucault ha chiamato le “tecnologie del sé”, il modello è funzionale anche alle “tecnologie del potere”[4]. Visto il carattere di questo scritto, qui di seguito sviluppo alcune riflessioni riferendomi prevalentemente alle posizioni di Scheler.
La traduzione del termine scheleriano “Vorbild” non è semplice. Scheler distingue un significato più circoscritto e uno più ampio (cfr. GW II, 566-567)[5]. Nel suo senso più puro il Vorbild è una forza che promuove nel seguace una trasformazione dell’identità personale, anche se all’interno di un determinato stile inconfondibile o di una regola; nel significato più ampio include pure un’esemplarità “tipica” che agisce attraverso forme d’imitazione riproduttiva, rintracciabili ad es. nella forza della tradizione e della consuetudine. Propongo di tradurre il primo significato di Vorbild con “esemplarità” e il secondo con “modello”.
Il concetto di esemplarità, che finora non ha trovato molto spazio nei lavori su Scheler, può rappresentare un’importante occasione per ripensare il suo pensiero. Così l’etica materiale dei valori andrebbe riletta alla luce della tesi, sviluppata nell’ultima parte del Formalismus, secondo cui essa non ha a che fare con la ricerca di una norma o di un dover essere universali, cui conformarsi, ma piuttosto con l’esemplarità: l’esemplarità rappresenta per l’etica materiale dei valori di Scheler ciò che il dover essere è per l’etica formale di Kant. Senza mettere a fuoco il concetto di esemplarità risulta pertanto incomprensibile il passaggio dall’etica formale kantiana all’etica materiale di Scheler. Oltre a essere il centro propulsivo dell’etica scheleriana, l’esemplarità svolge un ruolo primario nella filosofia della religione esposta in Vom Ewigen, nella teoria della funzionalizzazione, nella sociologia del sapere[6] e delle élites e si trova al centro della raccolta di scritti Modelli e capi, qui edita[7].
Il concetto attorno a cui muovono le riflessioni di Zambrano è invece quello di “guida”, considerata come un «cammino di vita» capace di diffondere una «forma di sapere esperienziale» alternativo a quello della filosofia accademica. In profonda sintonia con l’idea scheleriana di un’esemplarità che fonda la propria forza non sul comando o sull’imitazione omologante, ma piuttosto sulla capacità di offrire maieuticamente uno spazio ulteriore di crescita all’essere personale del seguace, Zambrano nota che le guide «non parlano per assoluti e per lo più insinuano, perché pretendono solo che chi ascolta trovi dentro di sé, allo status nascens, la verità di cui ha bisogno», infatti l’esperienza irrinunciabile è quella che si trasmette «unicamente se viene rivissuta, non semplicemente appresa, e la verità di cui la vita ha bisogno è solo quella che in essa rinasce e rivive […] È la verità nascente e ri-nascente, operante, la sola che trae il suo senso dall’esperienza vissuta, dal trasformare una vita, senza però far violenza»[8].
Il senso più profondo della guida è esplicitato da Zambrano in riferimento al concetto di “Aurora”, come dell’apparizione di qualcosa che strappa l’individuo dalla propria autoreferenzialità e gli indica un nuovo cammino nel posizionamento esistenziale nel mondo. L’“Aurora” infatti, dal primo istante in cui viene guardata, sollecita a trovare attraverso di essa un nuovo «posto nel cosmo», esigendo pertanto «una certa attitudine dell’uomo rispetto al proprio essere, una conoscenza del proprio luogo che lo accompagni all’incontro con il proprio essere. È una guida, dunque, se per guida intendiamo l’apparizione di qualcosa […] che liberi il soggetto da sé, dalla situazione in cui è rigidamente intrappolato in una ignoranza divenuta immobilità». Che immensa solitudine senza Aurora! – prosegue Zambrano – «che disorientamento! […] che privazione del proprio essere! Poiché sarebbe un trovarsi senza sentirsi vedere, senza sentirsi pensare […] sprovvisto del sentire originario. L’Aurora dunque è guida anche perché è radice, fiore, albero, anima del sentire originario»[9].
Certamente anche il sapere della guida ha una sua unità e coerenza, un suo metodo, ma questo, nota Zambrano, non è scandito nelle forme di una razionalità astratta ma piuttosto incede come una “melodia”. La “melodia” della guida «è creatrice, è imprevedibile», non comanda ma ispira. Al contrario al “ritmo” del capo si deve solo obbedienza assoluta: «il ritmo è concettuale, è dato; una volta trovato non c’è altro, come accade nelle marce militari. Non c’è né sorpresa né traccia di rivelazione»[10].
La rinascita di Scheler e la melodia di Zambrano mirano a dare nuova forma all’esistenza dell’uomo, ripensando la filosofia in conformità a un sapere che è sapere di formazione piuttosto che erudita trasmissione d’informazioni.
La convergenza fra esemplarità e formazione dell’uomo è all’origine di quella che già altrove ho proposto di chiamare una “etica dell’esemplarità”. Con etica dell’esemplarità intendo un’etica che non miri a fondarsi sulla correttezza procedurale del giudizio morale o sull’aderenza a un dover essere o a un principio razionale, valido per tutti allo stesso modo, ma piuttosto a promuovere, attraverso l’esemplarità, la fioritura della struttura affettiva dell’uomo e con essa la formazione della persona. L’esemplarità è universale non nella misura in cui uniformi, facendo riprodurre una identica procedura in ogni individuo, ma solo nella misura in cui trasforma l’ordo amoris di tutte le persone con cui viene a contatto, inducendo in ciascuna di esse un incremento delle differenze qualitative
Uno dei risultati più rilevanti dell’antropologia filosofica del Novecento è stato quello di mettere in luce come l’uomo non sia descrivibile nel senso di una natura umana fissa e predeterminata. L’identità dell’umano va piuttosto ricompresa a partire dalla capacità di trascendersi e rinascere, a partire da un processo di trasformazione che caratterizza, seppur in gradi diversi, il vivere di ogni uomo. L’uomo è l’essere che s’incarica d’assumere una forma che in natura non è già a disposizione, una forma che non è neppure deducibile dal proprio presente autoreferenziale, come avviene nell’ipotesi autoprogettuale. Se si tratta di una trasformazione che fa realmente breccia sugli orizzonti della propria egoità, che sorprende e spiazza il soggetto stesso, allora essa presuppone una rottura radicale, che può essere rappresentata solo dall’incontro con una forza maieutica proveniente dall’alterità. L’esperienza dell’esemplarità sta inoltre a significare che, fra i diversi esiti della trasformazione esistenziale dell’uomo, sussiste una pluralità che esprime una graduazione axiologicamente rilevante. L’esemplarità personale suggerisce di declinare la differenza degli stili esistenziali nel senso di un pluralismo che non è necessariamente relativismo.
Infine l’esemplarità permette di riconsiderare profondamente la fenomenologia dell’alterità superando definitivamente lo schema monadologico: la formazione del Sé avviene di pari passo alla formazione del Tu, giacché l’identità personale si costituisce attraverso l’esemplarità del Tu. La crescita della persona ha bisogno di quell’esemplarità aurorale capace di liberare il soggetto dalla propria drammatica intrascendenza. È questo che risulta stupefacente nelle diverse teorie della “inter-soggettività”: questa paura ancestrale a concepire, senza fallo, ogni influsso che proviene dal di fuori di sé come un furto, un danno ontologico alla propria autonomia e non piuttosto come un’occasione per vivificarla. La comunicazione si riduce così a “inter-soggettività”, nel senso di uno scambio d’informazioni disincarnate nello spazio che separa soggetti già formati. Al contrario il fenomeno dell’esemplarità mette in luce una situazione originaria di contaminazione e la possibilità di comunicare la trasformazione stessa.
L’equivoco che va sciolto a proposito dell’esemplarità è che essa, all’interno della fenomenologia del modello e del capo carismatico, non implica affatto la rivalutazione di una qualche forma di autoritarismo acritico. Le autentiche personalità esemplari, notava già Scheler, «devono renderci liberi e ci rendono liberi, nella misura in cui esse stesse non sono schiave ma libere, liberi per l’accoglimento della nostra destinazione e per la compiuta emanazione della nostra forza»[11]. Da esse scaturisce, come direbbe Zambrano, non un ritmo, bensì una melodia.
La semplificazione, in cui è caduta l’epoca del disincanto postmoderno, con l’oblio delle pratiche di esemplarità, è quella di pensare che oltre al “ritmo” sia possibile solo il “nulla”. Tempo fa sulla stampa italiana fece un certo clamore il caso di un liceo di Catania, dove un gruppo di studenti inviò una lettera aperta ai propri insegnanti nella quale si chiedeva «un aiuto nel trovare un senso al vivere e al morire». Evidentemente questi studenti avevano percepito sulla propria pelle la rinuncia della scuola a una funzione formativa. I docenti risposero che la loro non era una scelta per rassegnazione, ma motivata dal fatto che la scuola pubblica non deve trasmettere valori: «Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica»[12]. La mia impressione è che tale risposta non abbia colto nel segno per vari motivi, uno dei quali è che, forse, quegli studenti stavano cercando di esprimere un disagio verso una neutralità che, diventando ideologica, non ha ormai più niente a che fare con quel silenzio fecondo che protegge e fa germinare qualcosa dal di dentro. Una neutralità che rischia piuttosto di coincidere con il nulla. Invece un “maestro” è tale solo se ha da offrire silenziosamente un qualche buon esempio, perché è solo attraverso la forza di questa esemplarità, per quanto piccola possa essere, che può sperare di svolgere una qualche funzione formativa di tipo non autoritario, capace cioè di produrre differenziazione. Se manca completamente d’esemplarità, rischia di ridursi o a un trasmettitore d’informazioni o a un disciplinatore o a tutti e due assieme. Il problema si acuisce ulteriormente quando quest’alternativa fra autoritarismo e neutralità viene assunta anche dal genitore, quando è solo un confronto critico con le esemplarità e le contro-esemplarità a far crescere l’adolescente e a introdurlo nella realtà.



V parte
Dall'articolo on-line:


1. Modello ed esemplarità: la differenza essenziale fra Io e persona 
Fra l'Io umano e la persona vi è un confine essenziale, ma non immediatamente evidente. L'Io umano ha una «prospettiva in prima persona», è in grado di parlare, di lavorare, di relazionarsi socialmente, possiede una consapevolezza di se stesso, prende decisioni e iniziative autonome e socialmente efficaci. L'Io umano è in definitiva il soggetto che dirige il mio modo di vivere preminente, tuttavia non è ancora sufficiente a caratterizzarmi e individuarmi come persona. Ci sono situazioni in cui il modo di vivere preminente entra in crisi fino al caso limite in cui mi scontro con qualcosa di esistenzialmente imprevisto e capace di suscitare la meraviglia, una meraviglia che costringe a una ristrutturazione del modo complessivo di guardare le cose. È in questi interstizi, in cui è richiesto l'intervento dell'intenzionalità degli strati affettivi più profondi, che torna a manifestarsi la persona.
Al contrario dell'identità dell'Io, l'identità personale non si costituisce prendendo come punto di partenza l'esperienza del familiare, dello scontato -- tutti caratteri essenziali per un ruolo sociale -- ma si determina in un processo d'individualizzazione che è deviazione, in quanto aperto alla possibilità di venir disorientato da qualcosa che non è stato stabilito da me stesso e neppure dai modelli preminenti di orientamento sociale. È questo il rovesciamento implicito nel passaggio dall'Io alla persona: capacità di farsi deragliare dai binari del noicentrismo, capacità di abbandonare e rinunciare a tutto per esporsi al rischio del rinnovamento.
Ancora oggi non è stata del tutto superata la visione riduttivistica dell'essere umano che considera la persona un semplice ruolo sociale: una maschera, in cui la persona viene confusa con l'Io.1 L'Io emerge dal noicentrismo e costituisce la propria identità nella lotta per il sostentamento e il riconoscimento sociale. Si tratta di una identità necessariamente oppositiva, che avanza attraverso un processo di rafforzamento ed espansione del proprio polo egologico: si corazza, tende a fagocitare e ricondurre tutto al se medesimo, neutralizzando le differenze che incontra sul proprio cammino. La neutralizzazione delle differenze qualitative è particolarmente evidente nel caso della formazione dell'identità di gruppo: questa si forma in base a un modello che produce uniformizzazione fra i diversi membri, riversando discriminazione, cioè differenza arbitraria, verso tutto ciò che rimane non omologabile.
René Girard ha sicuramente il merito di aver riconosciuto la funzione determinante del «modello» nel processo di costituzione dell'identità noicentrica attraverso la triangolazione del desiderio: il mio desiderio per qualcosa in realtà non sarebbe altro che il desiderio mimetico del prestigio di chi possiede quell'oggetto e viene eletto a modello di un'esistenza riuscita. Il desiderio mimetico, mirando a possedere l'oggetto esibito dall'altro, propriamente non è desiderio dell'oggetto in sé, ma piuttosto del riconoscimento a esso connesso. L'uomo desidera
un essere di cui si sente privo e di cui qualcun altro gli sembra fornito. Il soggetto attende dall'altro che gli dica ciò che si deve desiderare, per acquistare tale essere. Se il modello, già dotato a quanto pare di un essere superiore, desidera qualcosa, non può trattarsi d'altro che di un oggetto capace di conferire una pienezza d'essere anche più totale. Non è con le parole, è con il suo stesso desiderio che il modello indica al soggetto l'oggetto supremamente desiderabile.2
L'altro s'impone come modello di pienezza d'essere attraverso l'esibizione degli oggetti posseduti, da qui il tentativo di costituire la propria identità attraverso la lotta per la loro conquista. Pur potendo avere anche una funzione positiva, ad es. nella trasmissione del sapere e nella formazione delle istituzioni sociali, è chiaro che il desiderio mimetico rimane sempre sul punto di cadere in un circolo autodistruttivo. Il valore dell'oggetto conteso aumenterà in modo direttamente proporzionale alla resistenza frapposta dal modello:
se il desiderio è libero di fissarsi dove vuole, la sua natura mimetica lo trascinerà quasi sempre nell'impasse del double bind. La libera mimesis si getta ciecamente sull'ostacolo di un oggetto concorrente (Ibid.).
L'uomo desidera intensamente proprio perché prima di tutto desidera essere. Una volta disimparato a essere cade facilmente nell'equivoco di scambiare l'essere con i segni esteriori del riconoscimento sociale e finisce col vivere nel costante terrore di rimanere invisibile. Nel desiderio mimetico, descritto da Girard, l'uomo s'illude di essere impossessandosi semplicemente dei simboli del prestigio altrui: si tratta di una «credenza magica», ma fondata sulla giusta intuizione che è in direzione della partecipazione all'alterità che è possibile realizzare il desiderio di essere. Ma di quale relazione con l'altro si tratta? Le analisi del desiderio mimetico sviluppate da Girard costituiscono solo il momento più appariscente di questo fenomeno e andrebbero senz'altro integrate con quelle, svolte all'inizio del Novecento, da Max Scheler a proposito della teoria del Vorbild, analizzando come il desiderio di essere, che per realizzarsi non può evidentemente limitarsi all'appropriazione di simboli totemici, abbia bisogno di immergersi concretamente nel «convissuto» di chi è riuscito a «essere» in modo esemplare.
Per poter affrontare più incisivamente il problema propongo tuttavia una distinzione che vuole rimanere libera tanto nei confronti del desiderio mimetico di Girard quanto del Vorbild di Scheler: quella fra modello dell'Io ed esemplarità della persona.3 Il modello, esibendo simboli di prestigio, produce livellamento esattamente come l'esemplarità, offrendo uno spazio di «covissuto» alla compartecipazione, promuove e fa affiorare le differenze qualitative individuali. L'esemplarità è un fattore «spirituale» che agisce nel senso di legare e tenere insieme in modo del tutto diverso dalla paura, dalla minaccia e dalla convenienza. Non si tratta di unire le forze per risolvere una minaccia esterna incombente (questo lo sanno fare anche gli insetti sociali), ma di un legame non simbiotico in cui tuttavia sento una comunanza solidaristica nella crescita della densità esistenziale con l'altro, tanto che quando questo legame si spezza, o si allenta, posso patirne in modo chiaro e distinto l'assenza o l'attenuazione.
Nel covissuto dell'esemplarità, l'altro mi aiuta a entrare in contatto con quella forza che mi fa sentire vivo e che quindi mi fa essere, invece nel modello identifico totemicamente tale energia nei desideri e negli oggetti posseduti dall'altro. Così facendo il modello si presta a diventare lo schermo su cui proiettare fantasmaticamente quella forza che non riesco a trovare, ma che nel contempo intuisco essere indispensabile per dare finalmente densità e visibilità a una vita altrimenti spenta. Certo anche la separazione dall'esemplarità produce sofferenza, ma almeno in relazione a qualcosa che esiste. Inoltre, se tale separazione non avviene troppo presto, non comprometterà l'accesso alla forza che fa sentire vivi. Invece il modello, essendo di natura virtuale, propriamente non abbandona: semplicemente svanisce improvvisamente nel nulla facendo sorgere l'impressione, in chi lo imitava, di essere altrettanto vanescente. L'aspetto tragico (e in alcuni casi tragicomico) dell'innamoramento basato sul proiettivismo egologico, aspetto su cui da sempre fa leva il seduttore, consiste nel non rendersi conto che spesso il momento di massima solitudine è proprio quello che precede la separazione, e non quello che la segue:4 il momento in cui il seduttore è ancora fisicamente presente, ma ingannando ogni covissuto. Almeno la volatilizzazione del seduttore può essere l'occasione per rompere il meccanismo fantasmatico autoreferenziale che aiutava a tener in piedi, un processo doloroso, che però può coincidere con una riconquista di densità esistenziale.
Probabilmente non l'arte, come la concepiamo oggi, ma questo aspetto manipolativo del proiettivismo egologico era il vero obiettivo polemico di Platone. Nel Sofista Platone distingue due modi di creare immagini (o attività di eidola poiein) alla base della mimesis: nel primo, eikastike, c'è una similitudine, una somiglianza con l'originale, nel secondo, phantastike, prevale invece la manipolazione del soggetto (Sofista, 236a-236d).5 Nel primo caso la formazione dell'immagine coincide con lo stesso processo iconico di manifestazione dell'originale e, non risolvendosi in un prodotto meramente gnoseologico o soggettivo, si dà solo di fronte a una capacità di aprirsi e partecipare alla manifestazione dell'originale, comportando un drastico ampliamento dell'orizzonte percettivo. Nel secondo caso invece il soggetto nella costruzione dell'immagine si limita a proiettare in essa i propri bisogni e -- deformandola a proprio uso e consumo -- si condanna alla chiusura ambientale, cioè a rimanere prigioniero della propria dimensione solipsistica.6
L'arte di fabbricare eidolon (l'eidolopoiike di cui parla Platone) è da condannare nella misura in cui diventa la fabbrica di sogni, o meglio di idoli, che erige i vitelli d'oro nella nuova era della virtualità mediatica, frutto del proiettivismo egologico collettivo,7 apice del processo di centricità organica.8 Da questa fiction eidologico-virtuale di tipo proiettivo va distinta una realtà materialmente iconica che è colta solo in modo recettivo: l'esemplarità. La persona è passiva laddove l'Io è attivo e attiva dove l'Io è meramente passivo. Con la sua intentio preafferrante e anticipante l'Io è attivo nel percepire protenzionalmente9 gli oggetti fantasmatici del desiderio, ma poi passivo nell'imitare i modelli sociali che dirigono il desiderio stesso: ripete meccanicamente il modello fino a uniformarsi ontologicamente a esso; liberandosi dal momento iconico e puntando su quello fantasmatico, è sempre sul punto di trasformare l'eidolon in idolo. La persona invece ha la capacità recettiva-passiva di esporsi all'ascolto del diverso da sé, ma poi è attiva nello sviluppare gli esempi iconici che la contagiano: l'esempio germina dal di dentro fino a diventare il materiale su cui costruire la deviazione precipua del proprio percorso individuale. Per porsi nelle condizioni di ricevere e venir fecondati passivamente dall'esemplarità iconica è necessario innanzitutto un processo di svuotamento kenotico dalla pienezza del proprio egocentrismo proiettivo. Solo dopo l'esemplarità riesce a contagiare nel senso di un'alterità che aiuta maieuticamente a far partorire se stessi una seconda volta.
L'iconicità è alla base dei tre momenti costitutivi dell'esemplarità. In quello maieutico emerge un'istanza anti-assolutizzante in quanto nell'esemplarità non c'è un obbligo: esattamente come il Socrate philo-sophos, l'esemplarità non ha una sophia da trasmettere attraverso comandamenti o norme universali ed eterne. Non impone qualcosa, come avviene per il modello, piuttosto accende e ridesta, suscitando dal di dentro una risposta innovativa; per questo se la partecipazione dell'Io a un modello è obbligata a muoversi lungo un binario uniformante, la compartecipatività propria della persona può irradiarsi liberamente in tutte le direzioni.
In quello rettificante emerge al contrario un'istanza anti-relativistica: nell'esemplarità il rapporto ai valori viene colto come un momento di rettificazione (nel senso di Agostino) irriducibile al soggetto: esisterà un modo corretto o distorto di rapportarmi alle mie aspirazioni individuali più profonde, che trova il proprio punto di equilibrio nella realizzazione di un ordo amoris.
Infine in quello solidaristico è individuabile un'istanza anti-solipsistica: nella misura in cui pretendo di auto-progettarmi cado inevitabilmente vittima del mio désordre du cœur, mentre è solo in una prospettiva solidaristica che riesco a ricostituire al centro della mia esistenza l'ordo amoris che mi consente di essere libero.
L'esemplarità può aspirare a una validità assoluta, ma dandosi a ciascuna persona concreta in modo individuale. L'esemplarità non è un catturare che uni-forma: piuttosto è una tras-figurazione nel senso di una Um-bildung volta a generare qualcosa oltre se stessa. Invece di appiattirmi su se stessa l'esemplarità mi trasmette il balzo in avanti che sta dietro il suo successo, mettendo in moto un processo di valorizzazione delle differenze.
È il problema del carisma esemplare: che rapporto c'è fra l'esemplarità e la seduzione implicita nel concetto scheleriano di capo? Anche una esemplarità seduce, tuttavia il sedurre dell'esemplarità carismatica, essendo preceduta da un atto di kenosis, non se-duce autoreferenzialmente al sé fattuale, ma con-duce al nucleo del gesto esemplare con cui la vita ha trasceso se stessa in direzione dello sforzo solidaristico che quell'individuo lì ha attuato esemplarmente. La sequela dell'esemplarità con-duce nel momento critico del salto necessario a trascendere la propria dimensione egologica, quello in cui si abbandona tutto per guadagnare tutto. In questo salto nel vuoto è effettivamente presupposto un atto di fede: per non rimanere paralizzati dalla paura di saltare occorre farsi prendere per mano e credere che l'esemplarità sia capace di sorreggerci, evitandoci la caduta.
Il modello noicentrico invece paralizza chi è in procinto di saltare infondendo sicurezza e rassicurando sulle basi su cui poggia chi è rimasto fermo in piedi su se stesso, in tal modo si genera consenso, ma anche l'inevitabile restringimento dell'orizzonte axiologico complessivo.
2. Il solidarismo come superamento del relativismo e del dogmatismo etico 
In questa prospettiva l'esemplarità permette un superamento non solo del relativismo ma pure del dogmatismo etico. Si tratta di ritornare a riflettere su quella connessione, già rintracciabile nei testi di Max Scheler, fra il principio di solidarietà soterica -- enunciato nel manoscritto Absolutsphäre und Realsetzung der Gottesidee (1916) -- e la successiva teoria del riequilibrio o armonizzazione (Ausgleich). Il punto di vista caratterizzante con cui la singola persona si rapporta alla gerarchia dei valori non ha nulla a che fare con il relativismo e non intacca minimamente l'oggettività del valore stesso. L'aver misconosciuto che la persona è tale in quanto espressione ontologica di un punto di vista axiologico irriproducibile, di una presa di posizione unica e inconfondibile nei confronti del mondo dei valori, è stato il principale limite dell'etica kantiana. L'equivoco è quello di pensare che più un agire etico s'impone come universale, meno sia relativistico: in questo modo si trasferisce indebitamente sul piano etico la metodologia adottata da Galileo Galilei per determinare le leggi fisiche.
Il problema sollevato dal relativismo etico non è tanto il sostenere l'esistenza di diversi punti di vista axiologici (più propriamente in questo caso bisognerebbe parlare di prospettivismo etico), ma il fatto di ritenere che i punti di riferimento axiologici non abbiano un fondamento ontologico, ma esclusivamente convenzionale o arbitrario. Questo sarebbe vero solo se l'orientamento axiologico si basasse su di un giudizio di valore. In altri termini il momento convenzionale o arbitrario riguarda il giudizio di valore, che è sul piano morale, ma non l'etica che ha a che fare con l'ampiezza della recezione del valore, precedente il giudizio di valore.10 Le diverse prospettive da cui è possibile guardare un monte non sono un fatto convenzionale o arbitrario ma ontologico, il giudizio su quella che si ritiene essere la più estetica avrà invece un carattere arbitrario o convenzionale. Il problema è che la convenzione, per natura, può aspirare ad avere una validità universale, ma se esistono convenzioni con validità universale, allora è necessario abbandonare la via dell'universalità, per cercare di sconfiggere il relativismo etico sul piano opposto, cioè attraverso la dimostrazione della consistenza ontologica del prospettivismo etico.
Il prospettivismo etico si distingue dal relativismo etico nella misura in cui riesce ad ancorarsi allo statuto ontologico dell'ordo amoris della singola persona. Una scelta etica risulta non relativista anche se espressione di una sola vocazione individuale debitamente rettificata. Più quella persona lì diventerà unica, meno il suo agire etico risulterà convenzionale o arbitrario; più quella persona lì svilupperà ontologicamente la propria particolarità mediante l'esemplarità, più il suo agire etico cercherà di corrispondere al bisogno di realizzare la propria vocazione individuale. Tutto si gioca sul fatto che l'agire etico dell'individuo non si fonda sul libero arbitrio. È qui che va scandagliata la fecondità implicita nel concetto di solidarismo: è il solidarismo, non l'universalismo il punto di riferimento finale dell'etica.
La differenza qualitativa non comporta di per sé il relativismo. Se l'emergere di diverse prospettive personali è il risultato di un percorso di formazione individuale non solipsistico, la conseguenza non è il relativismo etico, quanto il solidarismo etico: ogni sviluppo e perfezionamento nell'ordo amoris di una persona singola è da concepire come un passo in avanti nel processo di disvelamento infinito della assoluta gerarchia dei valori.11Ogniqualvolta un individuo, un popolo, una cultura, una religione o una nazione perde la capacità di sviluppare ermeneuticamente la propria visione complessiva, e interrompe così l'azione dei fattori spirituali volta al solidarismo etico, ricade automaticamente nella logica oppositiva, arrogandosi il diritto di possedere una visione ideologicamente conclusa.
Così come il relativismo cade di fronte al fatto che il processo d'individualizzazione della persona poggia su basi ontologiche, altrettanto il dogmatismo cade di fronte al fatto che tale processo rimane un compito infinito, possibile solo in una prospettiva solidaristica, in quanto il mondo dei valori non si dà mai alla finitudine umana in modo apodittico, ma rimane sempre parzialmente trascendente. Più la singola persona realizza la propria vocazione individuale, e quindi fa emergere le proprie irripetibili differenze qualitative, più contribuisce ad ampliare l'orizzonte axiologico complessivo. A sua volta la singolarizzazione personale richiede un processo di rettificazione esemplare che rimane inscritto all'interno di uno sforzo solidaristico comune.
Questo sforzo solidaristico, orientato dai fattori spirituali, tende in ultima analisi a salvare dal non vivere, quello derivante dal non riuscire a dare forma al proprio essere personale. Più una persona si «individualizza», più riesce a vivere intensamente, più rinasce e si salva. A livello della comunità questo significa che nello sforzo vocazionale di realizzarsi del singolo membro è all'opera e si perfeziona l'esemplarità di tutta la comunità: più un membro viene salvato dallo sforzo solidaristico, più salva la comunità in cui vive.
3. La rinascita attraverso la rettificazione dell'esemplarità 
L'antropologia filosofica del XX secolo ha cercato di comprendere l'uomo a partire dal concetto nietzschiano di uomo come animale malato. E se invece il tratto distintivo fosse da ricercare non in una carenza biologica, bensì in una incompiutezza spirituale? Se la persona si distinguesse ontologicamente da tutti gli altri enti in quanto l'essere incompiuto che ha bisogno di nascere una seconda volta? Si tratta di una tesi che, pur essendo molto antica, non è stata ancora filosoficamente recepita e sviluppata come meriterebbe. Il principale riferimento rimane l'incontro con Nicodemo, descritto nel Vangelo di Giovanni. Alla domanda di Nicodemo su che cosa sia la conversione, Gesù risponde:
In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo (anothen) non può vedere il regno di Dio». Gli dice Nicodemo: «Come può un uomo nascere se è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato dall'acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: bisogna che nasciate di nuovo (anothen) (Gv 3, 1-7).
Quello che notoriamente Nicodemo non comprende è che accanto al primo parto, quello dalla carne, per il cristiano è necessario un secondo parto in cui rinascere nel doppio significato di anothen: «di nuovo» e «dall'alto». Se il primo parto è ancora connesso alle vicende della prima creazione, il secondo parto -- dallo Spirito e attraverso il battesimo (come suggerisce il riferimento all'acqua) -- implica un cambiamento radicale e inspiegabile rispetto alla logica fattuale, tanto che «l'uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui» (1Co 2, 14). Tale cambiamento nel Nuovo testamento coincide con l'idea di una «seconda creazione».12
Nel cristianesimo il parto biologico dalla carne dà alla luce un essere che dal punto di vista spirituale è ancora incompleto e quindi bisognoso di un secondo parto. È una tesi così dirompente che Nicodemo la fraintende subito in senso fisico, tanto da chiedere sgomento come sia mai possibile ritornare nuovamente nel grembo materno: l'imparare a rinascere viene frainteso alla lettera come ripetizione di un processo immanente al modo di vivere abitudinario. Si tratta di un fraintendimento così naturale e istintivo da ricordare quello che nel platonismo ha spesso accompagnato l'interpretazione dell'imparare a morire: a ben vedere anche qui l'invito a «imparare a morire» viene falsamente preso alla lettera, in senso fisico, riducendo la riflessione sulla morte da occasione di messa in discussione del vivere abitudinario a suo evento culminante.13 Se non interpretati in senso fisico, il «nascere di nuovo» e l'«imparare a morire» convergono verso l'idea di un imparare a vivere, contrapposto non tanto alla vita terrena in quanto tale, ma al modo di vivere abitudinario, fattuale.
In questa occasione preferisco limitarmi alla tradizione cristiana, in quanto mi pare che in Platone il parto, pur al centro della maieutica, propriamente non sia inteso come ri-nascita, quanto come ri-sveglio ottenuto attraverso l'anamnesis. Ebbene come si produce propriamente questa rinascita dall'alto grazie ai fattori spirituali? Nella tradizione filosofica cristiana questa rinascita è il risultato di un processo di rettificazione del proprio désordre du cœur. Secondo Agostino la caritas si oppone al disordine della concupiscentia in quanto «amore ordinato», volto a proporzionare la propria intensità alla dignità ontologica dell'oggetto amato. È solo il riferimento a un ordine axiologico, non costruito dal soggetto, a permettere la rettificazione dei moti altrimenti soggettivi e disordinati dell'animo. In modo simile Scheler sottolinea che la Bildung, cioè la fioritura degli strati affettivi della persona, è possibile solo grazie a un'opera di costante rettificazione della loro orientatività. Il riferimento a un ordine axiologico, oggettivo nel senso di irriducibile al proiettivismo noicentrico, non sottintende un ritorno al dogmatismo etico, ma a qualcosa di ben più dirompente: la possibilità di deviare ex-centricamente dal desiderio mimetico e dal modo di vivere abitudinario.
Ma da dove trae origine la linfa di questo slancio spirituale? In Liebe und Erkenntnis Scheler, sempre richiamandosi ad Agostino, aveva riconosciuto all'atto dell'amare agapico la capacità d'aprirsi a un'intenzionalità che non parte dall'ego quanto dal mondo. Dal momento che la percezione e la conoscenza sono il risultato di un'attività selettiva (e non kantianamente sintetica) esiste una assoluta preminenza ontologica dell'interesse e dell'amare nei confronti del conoscere:
ogni incremento nella pienezza del manifestarsi e del significato con cui qualcosa si dà a noi [...] è l'immediata conseguenza dell'incremento del nostro interesse e in ultima analisi del nostro amare nei suoi confronti [...] ogni ampliamento e approfondimento della nostra visione del mondo è legato a un antecedente ampliamento e approfondimento della sfera del nostro interesse e amare (GW VI, 96).14
La correlazione fra l'intensità dell'amare e la pienezza con cui ciò che è intenzionato dall'amare si manifesta non è gnoseologica bensì ontologica. Inoltre in quanto correlazione la pienezza della manifestatività non è lontanamente comprensibile rimanendo nell'ottica del soggetto: al domandare dell'amare il mondo risponde dischiudendosi in un rimando infinito fra intenzionalità dell'amare e autorivelazione del fenomeno:
la sempre maggior pienezza con cui si dà l'oggetto col crescere dell'amare e dell'interesse, non è per lui [Agostino] il risultato di un'attività del soggetto conoscente che penetra in un oggetto precostituito, quanto piuttosto una reazione con cui l'oggetto stesso risponde: un offrirsi, un dischiudersi, un aprirsi dell'oggetto, cioè una vera autorivelazionedell'oggetto. Vi è un domandare dell'amare a cui il mondo risponde dischiudendosi e solo così arriva alla sua pienezza di esistenza e valore (GW VI, 97).
Dunque una maggiore apertura fenomenica è la risposta a un'intensificazione dell'amare e corrisponde a un maggior livello di compartecipazione: è la pienezza dell'amare a determinare il grado d'apertura con cui l'uomo s'affaccia sul mondo, fino a quello massimo rappresentato dalla Weltoffenheit. Così attraverso il grado d'intensità del proprio ordo amoris l'uomo penetra i differenti livelli della realtà fino a raggiungere quello che esprime una «risposta» corrispondente alla propria intensità. Ho già proposto in precedenti lavori d'interpretare questo grado di apertura come oggettivamente misurato dalla classe del valore che lo ha reso possibile: il valore diventa in tal modo il «diaframma» che regola la ristrettezza o l'ampiezza del campo di rilevanza, cioè del processo selettivo, fino al valore del sacro che annulla e rovescia sotericamente la selettività stessa nella più completa Weltoffenheit.
Il segreto della persona è racchiuso nel suo modo di venire alla luce: la sua essenza non è altro che la matrice del percorso ontologico con cui quella persona lì si manifesta compiendo una deviazione rispetto al piano noicentrico della quotidianità.15 Si tratta di una Um-bildung in cui l'«um» implica una tras-formazione grazie a un'opera di rettificazione. La Um-bildung raddrizza il désordre du cœur dell'uomo solipsisticamente incurvato su se stesso.
Proprio perché non è in suo potere, proprio perché implica una dimensione puramente «passiva» di patimento, la rettificazione è la croce della persona, vissuta come sofferenza. La rinascita incontra con essa una dolorosa resistenza nella carne della persona, fino a diventare l'incarnazione dello spirituale: è patire nel senso di diventare capaci di ricevere e di farsi afferrare da un'esemplarità. L'essenza della persona, la sua espressività,16è determinata dal modo in cui viene imitata e realizzata l'incarnazione che guida l'Um-bildung.
Nell'incarnazione lo spirituale diventa iconicamente visibile e quindi imitabile, si rivela cioè il sacro che contagia e fa germinare. Uno dei più influenti casi di imitatio Christi della storia occidentale è quello di S. Francesco: ebbene Francesco spogliandosi del mantello si veste d'esemplarità. Solo in tale «svuotamento», in tale kenosis, lo spirituale diventa iconico e imitabile nel senso della rinascita. All'opposto il modello noicentrico, basandosi su una mimesis proiettiva, produce livellamento.

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