lunedì 20 febbraio 2012

Buddha e la non resistenza al reale nel pensiero di Max Scheler

Nel primo novecento Scheler (1874-1928) fu sicuramente uno dei filosofi più sensibili al contronto fra occidente e oriente. Riprendo qui alcune osservazioni presenti nei miei saggi introduttivi ai seguenti volumi: Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2009; Scheler, Formare l’uomo, Milano 2009.
1) Nel primo brano è molto significativo che Scheler per definire la riduzione fenomenologica e l’atto dell’ideazione non si riferisca a Husserl, come ci si potrebbe aspettare, ma piuttosto a Buddha. Questo mette in evidenza una tesi che ho già sostenuto in Katharsis (1999) e cioè che la riduzione in Scheler non si caratterizza per essere un metodo conoscitivo, ma piuttosto una tecnica di tras-formazione della propria esistenza, di vera e propria rinascita, tecnica che ha alcuni aspetti in comune con le tecniche yoga. C’è inoltre il problema di una possibile convergenza fra diversi concetti di rinascita: quello presente nel dialogo maieutico socratico, nel cristianesimo e infine nella teoria dei “tre sandoku” della filosofia zen giapponese. Ecco il brano:
  >>Volendo chiarire ulteriormente la specificità e la particolarità di ciò che abbiamo chiamato «spirito», sarà meglio riferirsi direttamente a quello che ritengo un tipico atto dello spirito: l’atto ideativo. Si tratta di un atto completamente estraneo ad ogni tipo d’intelligenza tecnica. Un problema proprio dell’intelligenza sarebbe ad es. questo: «Adesso sento un dolore qui al braccio: come è sorto? Come può essere eliminato?». Il compito di rispondere a simili questioni è stato da sempre il compito proprio delle scienze positive. Tuttavia io posso riguardare questo stesso dolore come esempio di quella condizione essenziale, estremamente strana e stupefacente, secondo cui il mondo in generale è contaminato dal dolore, dal male e dalla sofferenza. In questa prospettiva io mi verrei a porre una domanda ben diversa: «Che cos’è propriamente il dolore stesso, prescindendo dal fatto puramente contingente che io ora e qui sento questo determinato dolore? Inoltre come sarà costituito il principio di tutte le cose affinché sia possibile l’esistenza del dolore in generale?». Un esempio grandioso di siffatto atto ideativo viene fornito dal famoso racconto dell’illuminazione di Buddha: dopo che per anni era stato preservato, nella reggia del padre, da ogni tipo di esperienza negativa, il principe uscì dal palazzo e per la prima volta vide, nell’ordine, un povero, unmalato e un morto. Tuttavia egli colse subito in questi tre episodi, contingenti e appartenenti all’ambito spazio-temporalmente determinabile, tre esempi puri capaci di rivelargli un carattere essenziale del mondo. ….. L’animale non può fare nulla di simile. L’ideazione designa dunque la capacità di afferrare le formeessenziali della struttura del mondo partendo da un semplice esempio delle regioni essenziali considerate, e questo indipendentemente dal numero delle osservazioni e delle conclusioni induttive che noi compiamo. …. Se ora vogliamo rivolgerci in modo ancora più approfondito all’essenza dell’uomo, allora dobbiamo considerare la struttura degli atti alla base di tale atto ideativo. Consciamente o inconsciamente l’uomo esegue una tecnica che si può caratterizzare come il tentativo volto a sospendere il carattere di realtà. L’animale vive immerso completamente in quella realtà concreta caratterizzata innanzitutto dall’avere una posizione nello spazio e nel tempo, un qui e ora, e in secondo luogo un’essenza contingente, di quelle cioè ricavabili da un qualche «aspetto» della percezione sensibile. Essere uomo significa invece pronunciare un energico «No» nei confronti della realtà sensibile. Buddha aveva già intuito questo quando diceva che è meraviglioso contemplare qualcosa, ma che è terribile essere qualcosa. Platone aveva già intuito questo quando faceva dipendere la visione delle idee dal rivolgimento dell’anima dal contenuto meramente sensibile delle cose verso un raccoglimento dell’anima in se stessa, in modo da cogliere l’«origine» delle «cose». …… Per comprendere come ha veramente luogo questo atto della riduzione bisogna tuttavia prima sapere in che cosa consiste propriamente la nostra esperienza di realtà. ….. ciò che ci dà l’esistenza è solo l’esperienza della resistenza di una sfera mondana già accessibile, ma tale resistenza si dà solo a partire dalla nostra vita desiderativapulsionale, solo nei confronti del nostro impulso vitale più centrale. Tale esperienza originaria della realtà come esperienza della «resistenza del mondo» precede dunque ogni coscienza, ogni rappresentazione, ogni percezione. ……. Che cosa significa allora questo energico «No» di cui io vado parlando? Che cosa significa propriamente «de-realizzare» il mondo o «ideare» il mondo? Questo non può significare, come invece ipotizza Husserl, sospendere il giudizio di esistenza. Significa piuttosto tentare di sospendere e annichilire il momento stesso della realtà, cioè tentare di sospendere e annichilire l’impressione totale, indivisa e possente della realtà, assieme a tutti i correlati affettivi che l’accompagnano: significa neutralizzare quella «angoscia mondana», che come ha detto profondamente Schiller si «dissolve» solo «in quelle regioni abitate dalle forme pure». Se è vero che l’esistenza è essenzialmente «resistenza», allora l’atto fondamentalmente ascetico della derealizzazione può consistere solo nella sospensione e nella neutralizzazione proprio dell’impulso vitale originario, il solo che risulti in grado di cogliere il mondo come «resistenza» e che risulta altresì la condizione di ogni percezione sensibile della realtà contingente spazio-tem-poralmente determinabile. ….. L’uomo è dunque l’essere vitale che reprimendo e inibendo le proprie tendenze pulsionali – vale a dire negando ad esse l’appagamento, attraverso immagini percettive e rappresentazioni – risulta capace di comportarsi in modoessenzialmente ascetico nei confronti della propria vita, una vita che altrimenti lo soggioga con la violenza dell’angoscia. Paragonato all’animale, che dice sempre di «sì» alla realtà effettuale, anche quando l’aborre e la fugge, l’uomo è «colui che sa dire di no», l’«asceta della vita», l’eterno protestante nei confronti di ogni realtà meramente effettuale. Paragonato all’animale, la cui esistenza è la incarnazione del filisteismo, l’uomo risulta l’eterno «Faust», la bestia cupidissima rerum novarum, incapace di trovare appagamento nella realtà effettuale circostante, e sempre desiderosa di infrangere quei limiti spazio-temporalmente determinati entro cui gli è data l’essenza e l’«ambiente-proprio», e che rappresentano anche i limiti della propria autorealizzazione. ….. Qui s’impone però la questione decisiva: lo spirito nasce attraverso l’ascesi, l’inibizione, la sublimazione oppure si limita piuttosto a riceve da essi solo le proprie energie? A mio avviso l’atto della negazione, quel «No» alla realtà effettuale, non condiziona affatto l’essere dello spirito in sé, ma solo la suadisponibilità di energie e con ciò la sua capacità di manifestarsi. In ultima analisi, come abbiamo già detto, lo spirito è solo un attributo dell’essere stesso, e tale attributo si realizza nell’uomo in una particolare unità della concentrazione: la persona che si «raccoglie» in se stessa. …… Per Buddha il senso ultimo dell’esistenza umana coincide con l’estinguersi del proprio io come soggetto del desiderio, vale a dire nel raggiungimento di un mondo essenziale soltanto intravisto, cioè il Nulla o il Nirwana. Buddha non possiede un’ideapositiva di spirito, né relativamente all’uomo né relativamente al principio cosmico, egli ha riconosciuto molto bene soltanto l’ordine causale con cui, grazie alla tecnica di derealizzazione da attuarsi attraverso una sospensione del desiderio e di ciò che egli chiama «sete», vengono gradualmente superati tutti gli aspetti sensibili dell’essere: le sue qualità, forme, relazioni, come pure la sua spazialità e temporalità<<. (Da: Scheler, La Posizione dell’uomo nel cosmo,Milano 2009).

2) Il secondo brano, sempre da la Posizione dell’uomo nel cosmo, introduce il problema dell’Ausgleich, cioè del confronto fra la cultura occidentale e quella orientale, mettendo in luce due concezioni unilaterali della medicina. Scheler sottolinea come la scienza occidentale miri a dominare il mondo esterno, mentre quella orientale quello interiore (ad es. mediante le tecniche Yoga). Anche per questo la medicina occidentale ha tentato per molto tempo di risolvere il problema della malattia prevalentemente influenzando il corpo dall’esterno, medianti stimoli chimico-fisici e prestando poca attenzione al fattore psicologico:
 >>La circostanza che la scienza occidentale, come scienza naturale e come medicina, si sia dedicata soprattutto alla dimensione corporea dell’uomo, cercando d’influenzare i processi vitali specialmente attraverso un intervento esterno, è solo un segno, fra i tanti, dell’unilateralità degli interessi che dominano la tecnica occidentale. Il fatto che la scienza occidentale e la medicina si siano occupati in prevalenza dell’aspetto corporeo dell’uomo, cercando d’influenzarne i processi vitali attraverso un intervento esterno,evidenzia il fatto che la tecnica occidentale è stata orientata da un interesse del tutto unilaterale. Il fatto che a noi occidentali sembri più facile agire sui processi vitali dall’esterno piuttosto che attraverso un’opera psichica sulla coscienza non deriva necessariamente da un’effettiva separazione fra il piano psichico e fisico, ma si basa piuttosto su di un interesse unilaterale che per secoli ha dominato la medicina occidentaleprova ne sia che la medicina indiana manifesta all’opposto un’impostazione eccessivamente psichica non meno unilaterale<< (Da: Scheler, La Posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2009).
3) Il terzo brano, all’interno della conferenza sull’Ausgleich, si pone invece il problema di un superamento delle unilateralità della cultura occidentale e orientale attraverso un confronto. A mio avviso Ausgleich non va tradotto con “livellamento” in quanto implica al contrario la possibilità di un confronto capace di incrementare e produrre le differenze qualitative. Importante è anche il riferimento al mito di Sri Krishna. La volontà attiva del soggetto è destinata a non sottrarsi alle spire della realtà fattuale. Nell’atteggiamento “eroico” occidentale si cerca di eliminare il dolore in modo attivo dall’esterno (ad es. attraverso farmaci) mentre nell’atteggiamento orientale viene sviluppata maggiormente una tecnica interiore di “sopportazione attiva” del dolore. Per Scheler la prima via è più efficace per superare il dolore fisico (come quando viene anestetizzato) mentre la seconda è più adatta al dolore spirituale. In quest’ultimo caso è implicito un patire che è “attivo” perché fecondo di trasformazioni.
Nel saggio sull’Ausgleich troviamo anche una interessante interpretazione dell'episodio della lotta epica fra il bene e il male e di come il giovane Sri Krishna sia riuscito a liberarsi dalle spire del  serpente Kaliya. Tale vittoria non è conseguita aumentando l'intensità della resistenza alle spire del "mostro-mondo", ma al contrario rinunciando alla lotta e alla resistenza, rarefacendosi completamente fino a divenire imprendibile e a sfuggire così dalle spire del serpente.  L’attività dell’ego deve lasciar il passo alla passività “attiva” della persona che si realizza sottraendosi alla causalità e alla resistenza del mondo fattuale; solo in questo sfuggire alle spire della fattualità il centro personale riesce a risplendere di una nuova logica autonoma e a irradiarla attorno a se nel «non non fiat», gettando esemplarmente orientamento e organizzazione alle energie del mondo.
Ma ecco l’intero brano:
 >>Un altro processo di armonizzazione su vasta scala riguardante la formazione dell’uomo è quello, già da tempo in corso, che coinvolge l’Europa e i tre grandi centri asiatici di India, Cina e Giappone con la mediazione del mondo islamico: si tratta di un’armonizzazione che in futuro progredirà ancora in misura considerevole. ….. l’Europa ha iniziato – parlando per la Germania, a partire da W. v. Humboldt, Schelling e Schopenhauer – ad accogliere sempre più in profondità nel suo corpo spirituale, in misura considerevolmente ampliata e tramite un’infinità di canali, l’antica sapienza dell’Oriente, p. es. l’antichissima tecnica asiatica che insegna l’accettazione della vita e della sofferenza: ed è forse giunto il momento in cui l’Europa potrà attivamente disporre di questa sapienza anche all’interno della sua dimensione vitale. Si sta formando una filosofia mondiale autenticamente cosmopolita – quanto meno si stanno formando le basi per un movimento che vada in questa direzione –, una filosofia che non si limiti a documentare storicamente i sommi principi esistenziali e vitali della filosofia indiana, delle forme religiose buddiste, della sapienza cinese e giapponese, ma che insieme li metta effettivamente alla prova e ne faccia unvivo elemento del proprio pensiero. Senza rinunciare alle forme dello spirito fondate dall’antichità, dal cristianesimo e dalla scienza moderna – ogni volta che si tenta di rinunciarvi si imbocca una strada sbagliata –, l’immagine dell’uomo contemporaneo viene nondimeno modificata sotto aspetti essenziali e in misura considerevole da queste influenze. Anche in questo caso si va delineando un’armonizzazione relativa alle idee dell’uomo e ai modelli che formano l’uomo. Si armonizzeranno anzitutto l’ideale occidentale di fondo dell’“eroe” attivo verso l’esterno e l’ideale diffuso nella maggior parte dell’Asia e manifestatosi nel modo più netto nell’antico buddismo meridionale, vale a dire l’ideale del “saggio” che sopporta, che affronta la sofferenza e il dolore dell’esistenza con l’arte della sopportazione, della “non resistenza” – o meglio della resistenza spirituale alla reazione che si innesca automaticamente ogni volta che proviamo dolore, una reazione spontaneamente diretta verso l’esterno. In linea di principio è parte dell’ambito che riunisce i tratti essenziali dell’uomo la possibilità di rimuovere la sofferenza e il dolore – dai più semplici dolori fisici fino alla più profonda sofferenza della persona spirituale – sia agendo esternamente, con una modificazione degli stimoli esterni che provocano il dolore, sia agendo internamente, rimuovendo la nostra resistenza istintiva allo stimolo, ossia, detto brevemente: ricorrendo all’arte dellasopportazione. …….  a noi occidentali manca del tutto una tecnica sistematica volta al superamento del dolore dall’interno, così come ci manca la credenza in una tale tecnica e in un suo possibile progresso illimitato. Fino a poco tempo fa ci mancava persino una psicotecnica – intesa tanto come psicoterapia sistematica quanto come arte consistente in una tecnica vitale e in una gestione della psiche –, dato che l’epoca passata la escludeva, caratterizzata com’era da una medicina essenzialmente naturalistica che mirava al trattamento di singoli organi e complessi cellulari. Tuttavia, poiché nel processo vitale corpo e psiche sono strutturalmente una cosa sola, il processo vitale nel suo complesso deve essere modificabile in linea di principio su entrambi i versanti, quello fisico e quello psichico; e lo deve essere anche dal punto di vista tecnico, con stimoli fisico-chimici e passando per la coscienza – se e fino a che punto tutto ciò sia già effettivamente praticabile sono problemi della scienza positiva e della tecnica –, non solo nel caso di malattie nervose, ma anche di fronte a patologie organiche e interne dell’organismo.  .....     Finora non ci siamo mai chiesti seriamente se il nostro intero processo occidentale di civilizzazione, un processo così unilateralmente e iperattivamente diretto verso l’esterno, nonpossa  essere inteso alla fine come un tentativo messo in atto con mezzi inadeguati – considerato alla luce del processo storico nella sua interezza – laddove non gli si affianchi l’arte contrapposta, volta all’acquisizione interiore di un potere che governi la nostra intera “vita” psicofisica al di sotto del livello spirituale, dal decorso altrimenti meramente automatico: un’arte consistente nello sprofondare in se stessi, nell’introspezione, nella sopportazione e nella contemplazione delle essenze. Voglio ora prospettare un caso limite: non potrebbe darsi che l’uomo orientato esclusivamente al potere esterno sugli uomini e sulle cose, sulla natura e sul corpo – senza le azioni interiori appena menzionate e il contrappeso che gli verrebbe da una tecnica finalizzata al potere su di sé – finisca in ultimo col raggiungere l’obiettivo opposto a quello desiderato? Non potrebbe accadere che l’uomo sprofondi in un asservimentosempre crescente nei confronti del meccanismo naturale, quel meccanismo che egli per primo aveva intravisto e fatto agire all’interno della natura come campo ideale per disporre attivamente della natura stessa? Bacone ha detto: «naturam nisi parendo vincimus». Ma non vale anche nella stessa misura quanto segue: «naturam paremus, si nil volumus quam naturam vincere»?

Il mito indiano racconta del giovane Dio Krishna, il quale, dopo aver invano combattuto a lungo in un fiume con il serpente del mondo (simbolo del nesso causale) che lo stava avvolgendo, al grido del padre divino che lo invita a ricordarsi della sua natura celeste, si sottrae infine alla stretta nemica del serpente – con la facilità, aggiunge il mito indiano, con cui una donna sfila la mano da un guanto –, adattando ogni parte del suo corpo alle spire del serpente, cedendo loro pienamente. ……. Il contrasto precedentemente accennato tra l’atteggiamento occidentale e quello orientale nei confronti del mondo si manifesta in modo particolare anche nella politica e nella metodologia di questa disciplina, una manifestazione la cui importanza viene di solito notevolmente sottovalutata. Mi riferisco al profondo contrasto tra la “politica del cacciatore” – vale a dire la politica positiva di potenza – e la “politica della preda” – ossia la politica negativa della non-resistenza: quest’ultima si avvale dell’arte di attirare il “cacciatore” in ampie, caotiche e sterminate distese di territorio, nelle quali il cacciatore finisce così facilmente con lo smarrirsi e con lo sbagliare direzione, senza trovare i centri in cui si riuniscono le forze nemiche, attaccando i quali riuscirebbe a scuotere l’intero paese. Il terribile momento nella vita di Napoleone in cui egli si trovò davanti a Mosca data alle fiamme dagli stessi russi, un momento così plasticamente descritto da L. v. Ranke nella sua Rinascita della Prussia, è stato forse solo il primo esempio di un tipo di situazioni che potrebbero ripresentarsi spesso in futuro all’interno del contrasto che vede opporsi la politica positiva di potenza degli stati europei e i regni asiatici con la loro metodologia politica negativa. Oggi questa considerazione vale sia per la politica inglese e le sue opportunità in Cina sia per la [53] politica di non-resistenza degli indù e dei maomettani uniti dal Mahatma Gandhi contro la tirannia inglese in India. Grazie all’assimilazione e alla formazione di una particolare tecnica finalizzata alla sopportazione e alla gestione della sofferenza; grazie alla sua sintesi con la tecnica finalizzata all’acquisizione del potere esteriore che l’Occidente ha già così ampiamente sviluppato, sarà finalmente possibile una trasformazione della cultura conoscitiva generale<<. (Da: Scheler, Formare l’uomo, Milano 2009).

Max Scheler e il Dio in divenire: San Francesco e la sconfitta di Marcione (2002)



Nell'immagine: San Francesco spogliandosi si veste d'esemplarità 

San Francesco e la sconfitta di Marcione

San Francesco, Marcione, Harnack, Scheler



La versione completa di questo testo è presente in: G. Cusinato, Scheler. Il Dio in divenire, Padova 2002, pp. 137-140.

 


 Il libro di Harnack su Marcione

 Oltre a Schelling v’è un’ulteriore fonte che ha influenzato la riflessione scheleriana relativa al problema del «Dio in divenire»: il libro di Adolf von Harnack su Marcione. Di esso sappiamo che esce nel 1921 con il titolo: Marcion: Das Evangelium vom fremden Gott, e che Scheler lo cita già nel 1922[i]. La mia tesi è che la lettura di questo testo e il confronto con Marcione costringano Scheler a una netta presa di posizione nei confronti del problema del rapporto fra Dio e il male. Scheler, come cercherò di mettere in luce, è un avversario di Marcione, tuttavia prende sul serio molte delle problematiche che Marcione aveva sollevato. In primo luogo quelle che descrivono il Dio dell’amore, non ancora onnipotente e compiuto: il Dio del futuro. È solo in questo contesto che Scheler può affermare in un appunto non destinato alle stampe: «O Dio! Solo da questo momento io riesco veramente ad amarti e ad adorarti in modo puro: da quando ho scoperto che non è tua la paternità e la responsabilità per l’esistenza materiale e il divenire di questo mondo»[ii].
La tesi scheleriana del «Dio in divenire» può essere allora letta come un tentativo di superare e contrastare la contrapposizione che Marcione pone fra il Demiurgo che ha creato il mondo e il Dio che redime l’uomo, fra il Dio che è nel male e il Dio che innalza dal male, fra il Dio che rappresenta la giustizia risentita «dell’occhio per occhio, dente per dente» e il Dio che è agape e perdono, fra il Dio dell’Antico e il Dio del Nuovo Testamento. Invece la rivalutazione della natura e della teoria platonica dell’eros, che Scheler sviluppa con particolare impegno a partire da Essenza e forme della simpatia, può essere vista come una sana reazione alla sconvolgente e allucinante condanna che Marcione rovescia nei confronti dell’atto creativo e di ogni forza vitale.
Ma lasciamo parlare Harnack. Marcione è una delle figure chiave per comprendere la storia del cristianesimo: i Padri della chiesa non sarebbero riusciti infatti a confutare completamente Marcione, anzi proprio attraverso le loro critiche tesi fondamentali di questa eresia si sarebbero diffuse e sarebbero state fatte proprie dal cristianesimo. L’ipotesi di Marcione parte da una riflessione: nell’Antico Testamento si parla di creazione, nel Nuovo di redenzione; nel primo si parla di legge, nel secondo di grazia. Le conclusioni a cui arriva Marcione sono estreme: il Dio del Nuovo testamento è un Dio diverso da quello dell’Antico Testamento, è il Dio buono, quello che ha inviato sulla terra Gesù per salvarci dalle miserie di questo mondo. Ad esso si contrappone il Dio dell’Antico Testamento, il Dio che ha creato il mondo ed è responsabile del male che in esso regna.
Tutti temi destinati ad aver profonde conseguenze sul pensiero di Scheler. Marcione – afferma Harnack – dipinge il Dio creatore come un Dio onnipotente che non è stato capace di autocontrollarsi, che soprattutto non sa dell’altro Dio e si è trasformato in un despota che regna imponendo la sua legge come giustizia puramente formale: «voluntas regis suprema lex». Dove traspare la malizia di questo Dio? Nel fatto che ha creato l’uomo debole, soggetto al peccato, alle malattie, ecc.. Nel fatto che lo induce continuamente in tentazione per poi infliggergli una serie infinita di condanne e punizioni, nel fatto che le colpe dei padri ricadono sui figli, che l’innocente soffre al posto del colpevole, che la storia dell’uomo è disseminata di guerra e di ogni sorta di violenze.[iii]
Il Dio creatore – prosegue Harnack – è secondo Marcione il Dio senza misteri: la sua natura inferiore risulta chiaramente riconoscibile dalla sua opera. Certo il culmine della creazione è anche per Marcione l’uomo, ma qui non si può propriamente parlare di un’opera che corona un atto riuscito: la creazione dell’uomo è piuttosto una misera tragedia. Questo Dio ha creato l’uomo infondendogli nell’anima la propria sostanza, ma tale sostanza non solo si rivela imperfetta, essa viene addirittura mescolata con la carne: così per colpa di una creazione difettosa nasce l’uomo come essere manchevole.
Ma quello che non può non aver colpito Scheler è il disprezzo isterico nei confronti dello stesso atto generativo dell’uomo: l’uomo nasce come conseguenza di un atto immondo, di un «negotium impudicitiae» che lo fa fluire nel grembo materno e poi lì lo nutre per nove mesi.[iv] Qui l’atto sessuale diventa immorale specialmente se è diretto alla procreazione. E il perché è chiaro: per Marcione l’uomo ha la possibilità di redimersi solo sabotando e contrastando ogni forma di forza generativa che porta a rafforzare il mondo. La salvezza va ottenuta accelerando la fine del mondo, impedendo con ogni mezzo la rigenerazione e lo sviluppo della natura. L’ascesi è allora intesa come un ritirarsi dal mondo, un prendere le distanze da esso attraverso una grazia che proviene liberamente dal Dio buono.


Da Marcione a Francesco


Scheler raccoglie da Marcione alcuni spunti: nell’idea di un Dio che diviene, di un Dio che non è ancora compiuto si riflette forse qualcosa di quel Dio buono di cui parlava Marcione: un Dio che ancora non è, un Dio che non è responsabile dei mali di questo mondo. Ma proprio la tesi del «Dio in divenire» mette radicalmente in discussione l’impostazione di Marcione. Qui non si tratta solo di negare l’esistenza di due divinità, riaffermando un unico Dio, ma di unificare nel divenire di questo unico Dio qualcosa che per Marcione rimaneva assolutamente inconciliabile.
Questo cambiamento di prospettiva avviene grazie a una completa rivalutazione dell’atto creativo e della sua opera: il mondo. Ma rivalutare il mondo per Scheler significa vedere nella fecondità della natura non il segno di un Dio malvagio, quanto il riflesso di un incoraggiamento agapico. Da questo punto di vista la tesi del Dio in divenire viene preparata e anticipata da quella importante operazione che Scheler compie nel 1922, volta a far convergere i due momenti, generalmente contrapposti, dell’eros e dell’agape.
Basta leggere la definizione che Scheler dà di agape per mettere da parte ogni equivoco e rendersi subito conto della distanza abissale che intercorre fra Marcione e Scheler: «agape è il dire di sì al mondo e all’ens a se, il dire di sì all’essere in tutti i suoi aspetti, anche all’essere reale e alla sofferenza nella resistenza del reale»[v]. Il riferimento diretto di questa definizione non è il Nuovo Testamento[vi]. A chi pensa Scheler?
Nel cristianesimo è presente una tendenza volta a contrapporre eros e agape, a interpretare l’atteggiamento fondamentale dell’uomo nei confronti del mondo attraverso il concetto di angoscia. Questa tendenza ha storicamente una delle sue fonti principali proprio in Marcione. E che Marcione continui a rimanere presente all’interno del cristianesimo esercitando un influsso rilevante, viene sottolineato non solo da Harnack, ma anche da molti altri. Più recentemente è stato Taubes a ritornare su questa questione riprendendo anche un altro punto sottolineato da Harnack: quello del rapporto fra Marcione e la teologia di Paolo. Marcione, nota Taubes, ha estremizzato le differenze che Paolo individua tra Antico e Nuovo Testamento, tuttavia se non ha capito Paolo non lo ha neppure completamente frainteso[vii]. E in ogni caso quella componente nichilistica, così efficacemente descritta da Harnack, continua a tentare la storia del cristianesimo.
Si tratta di un ragionamento che funziona, tuttavia in questo ragionamento di Taubes manca una figura importante: Francesco. Ebbene nel 1922, proprio l’anno in cui Scheler legge le pagine di Harnack su Marcione, Scheler dà alle stampe la seconda edizione di Essenza e Forme della Simpatia, aggiungendo fra l’altro alcune importantissime pagine in cui dipinge Francesco come colui che ha salvato il cristianesimo dalle estremizzazioni della teologia di Paolo. E qual è per Scheler il centro della controversia? La svalutazione del mondo. La vera confutazione di Marcione non avviene a opera dei Padri della chiesa, ma a opera di Francesco.
Nella teologia di Paolo non viene neutralizzato il rischio di una esaltazione unilaterale dell’«amore acosmico» capace di condurre a una completa desacralizzazione della natura. Dove desacralizzare la natura significa metterla incondizionatamente a disposizione della volontà di dominio dell’uomo: «Nella misura in cui l’uomo si sente drasticamente al di fuori della natura [...] e raccoglie tutte insieme le forze che si vanno liberando nell’atto della unipatia in Cristo, quell’atto che a cominciare da Paolo è guidato dall’amore acosmico per Gesù Cristo, [...] la natura diventa in linea di principio un oggetto privo di vita, sottoposto al dominio della volontà spirituale dell’uomo»[viii].
Tale sdivinizzazione della natura priva la natura di ogni valore e di ogni diritto, e la separa dall’atto creativo: solo l’uomo ha diritti. Ma tale incapacità di conservare un atteggiamento etico nei confronti della natura finisce con lo strumentalizzare la stessa elevazione dell’uomo: l’uomo considerandosi immagine di Dio pensa di aver il diritto di dominare illimitatamente sul creato, così come Dio stesso. Tuttavia il dominio dell’uomo sulla natura diventa un dominio di tipo tecnologico, ed è proprio la forma di tale dominio che finisce per diventare il canone attraverso cui viene ricostruita la stessa immagine di Dio. Il risultato non può che essere una catastrofe: la volontà del soggetto umano trasferisce tutta la sacralità della natura in un Dio completamente trascendente, ma dopo aver assunto il dominio completo sulla natura identifica Dio con tale onnipotenza, oppure semplicemente si dimentica di Dio, o lo neutralizza.
Nell’assolutizzazione unilaterale dell’amore acosmico «si verifica un’enorme devitalizzazione e disanimazione dell’intera natura [...] che portò per secoli – fino al movimento francescano [...] – a bollare come pagana ogni tipo di unipatia con la natura»[ix]. Soltanto nell’essenza e nella storia dei misteri e dei sacramenti cristiani – prosegue Scheler – è rimasta una qualche remota traccia di un contatto fra il divino e la natura, e precisamente nell’identificazione del corpo e del sangue del Signore con il pane e il vino. «Fino al movimento francescano...»: è solo con Francesco che il cristianesimo riesce a parlare di amore verso la natura senza ricadere nel paganesimo.
Mentre un amore acosmico inteso in modo unilaterale apre le porte alla tesi dell’onnipotenza creazionista del soggetto, l’unipatia cosmica era infatti da sempre sfociata nelle varie forme di panteismo e di naturalismo. Sotto questo aspetto, nota Scheler, Francesco non ha nessun precursore in tutta la storia cristiana dell’occidente. «Ciò che più ci colpisce – anche occupandoci solo superficialmente di Francesco d’Assisi e delle sue orme terrene – è il fatto che egli chiami fratelli e sorelle anche il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, così come animali e piante d’ogni specie. È il fatto che egli attuasse un’espansione della mozione specificamente cristiana dell’amore di Dio come Padre, dell’amore fraterno e dell’amore del prossimo “in” Dio, a tutta la natura infraumana, e che al contempo attuasse, o sembrasse attuare, un’elevazione della natura alla luce e allo splendore del sovrannaturale»[x].
Per Scheler Francesco salva il cristianesimo perché è in grado di far convergere «amore acosmico» e «unipatia cosmica», «vitalizzazione dello spirito» e «spiritualizzazione della vita», riuscendo a concretizzare nella propria esistenza e azione l’unione stessa di questi due momenti. Ma se la provenienza dell’amore acosmico è individuabile nel cristianesimo, qual è l’origine di questo atto d’unipatia cosmica? Per Scheler non ci sono dubbi: esso ha origine nella teoria platonica dell’eros.


Il pan-enteismo e la sacralità della natura


Nell’eros si realizza una fusione emotiva e carnale proprio con quella forza vitale generativa che Marcione voleva combattere a tutti i costi, e tale unione si realizza nella forma di un’estasi dionisiaca, che portata fino alle estreme conseguenze ripiomberebbe l’uomo in quella identificazione nella natura da cui si era faticosamente emancipato all’origine del proprio divenir unomo. Nell’amore acosmico si apre invece la strada a un’estraneazione dalla natura che in epoca moderna si è unilateralizzata nel tentativo di cancellare ogni residuo di sacralità dalla natura in modo da poterla poi ridurre a puro oggetto, a meccanismo inanimato.
La partecipazione alla natura a cui pensa Scheler, sulle orme di Francesco, vuole essere qualcosa di profondamente diverso. Vuole essere partecipazione a quella corrente vitale tanto demonizzata da Marcione, ma non nel senso di una fusione dionisiaca: attraverso l’atto agapico la partecipazione viene per così dire “trattenuta” e non cade nella fusione. Tale partecipazione non avviene più a livello del centro vitale quanto del centro personale: la persona nell’atto di partecipare conservata una propria identità e una distanza, una distanza resa possibile dalla presenza di un’agape dietro a cui emerge la rivendicazione di un Dio che trascende la natura. Una tale partecipazione non ha più nulla a che fare allora con le varie forme del contagio affettivo, dell’ipnosi, della fusione vitale, ecc., perché non si pone più sul livello psicologico: il senso di questa partecipazione è piuttosto quello dell’«apertura al mondo».
Attraverso questa compenetrazione fra eros e agape l’uomo è dunque in grado di considerare la natura eticamente, di assumere una responsabilità nei suoi confronti, di riconoscere in essa un momento di sacralità che automaticamente le conferisce dignità, e questo senza ricadere nel panteismo. In Essenza e forme della simpatia Scheler, per designare questa posizione che riconduce a Francesco, usa il termine di «panenteismo». Un termine spesso confuso con quello di «panteismo» (addirittura anche nelle traduzioni). Con esso invece Scheler intende contrapporsi al panteismo, e cioè all’identificazione fra Dio e natura naturans, affermando che Dio è parzialmente immanente ma anche parzialmente trascendente la natura. Uno sviluppo di questa concezione panenteistica è rintracciabile in Moltmann.



[i] Nel Nachlass di Scheler rintracciabile sotto ANA 315, CA IX, 37.
[ii] GW XII, p. 235.
[iii] Per un’interpretazione del concetto scheleriano di agape in riferimento al Nuovo Testamento cfr. § 6.5.
[iv] J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, München 1993, p. 82.
[v] GW VII, pp. 94-95.
[vi] GW VII, p. 95
[vii] GW VII, p. 97.
[viii] Un’esplicita negazione della creatio ex nihilo è espressa ad es. in GW IX, p. 101. Su questo punto mi permetto di rinviare al mio lavoro Katharsis, Napoli 1999, p. 369.



[i] Cfr. GW VI, p. 93.
[ii] GW XV, p. 182.
[iii] Harnack, cit., p. 141.
[iv] Harnack, op. cit., 145.
[v] GW XII, p. 235.
[vi] Per un’interpretazione del concetto scheleriano di agape in riferimento al Nuovo Testamento cfr. § 6.5.
[vii] J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, München 1993, p. 82.
[viii] GW VII, pp. 94-95.
[ix] GW VII, p. 95
[x] GW VII, p. 97.

Nietzsche e l'antropologia filosofica di Scheler (2002)

 L'antropologia filosofica: dall''Übermensch di Nietzsche all'Allmensch di Scheler


Nei quaderni manoscritti che Scheler dedica al progetto di una antropologia filosofica (conservati al Nachlaß della Stabi di Monaco di Baviera) emerge in modo rilevante la centralità del confronto con Nietzsche. In due miei precedenti lavori – Le ali dell’eros. Per una riconsiderazione dell’antropologia filosofica di Max Scheler, in: «Annuario Filosofico», XV, 1999, 418; inoltre nella Guida alla lettura di La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2004, 65 nota 34 – avevo già richiamato l’attenzione sull’importanza di un manoscritto inedito che finora era passato inosservato: il “quaderno 21”, 164 pagine in cui Scheler nel 1927 aveva raccolto alcune idee in vista di una conferenza su Nietzsche (catalogato ANA 315 B I 21 e poi parzialmente dattiloscritto dalla moglie in diversi fogli raccolti nella sezione catalogata ANA 315 CA V). 
Nel seguente lavoro, facendo tesoro anche di tali ricerche, per la prima volta si tenta di tracciare un bilancio dell'influsso di Nietzsche sull'antropologia filosofica di Scheler.  Ho ripreso successivamente queste tematiche in: G. Cusinato, La Totalità incompiuta, Milano 2008, 17-61.


La versione completa di questo scritto è stata pubblicata nel 2002 in: 
G. Cusinato, L’uomo come eccedenza. Nietzsche e l’antropologia filosofica di Max Scheler, in: F. Totaro (a cura di), Nietzsche fra eccesso e misura, Carocci, Roma 2002, pp. 237-251.
 
1.    «Tramonto dell’uomo» e antropologia filosofica[1]
 Nietzsche annunciando il «tramonto dell’uomo» si pone al di fuori di una prospettiva meramente antropocentrica: l’uomo non è più misura di tutte le cose e fine del creato ma diventa piuttosto un passaggio, qualcosa che può essere compreso solo a partire dal suo autosuperamento. Così come è avvenuto a proposito della volontà di potenza[2], dove già da tempo si è messo in rilievo come essa, nella sua forma più pura e creativa, si ponga al di là del soggetto, altrettanto l’analisi nietzschiana sull’uomo sembra sbarrare definitivamente il passo ad ogni «antropologia filosofica». Questo tuttavia risulta corretto solo nei confronti di una «antropologia filosofica» ancora intenzionata a considerare l’uomo come una entità fissa e conclusa, nei confronti di una antropologia filosofica concepita ancora entro gli orizzonti di una qualche filosofia del soggetto.
Con Nietzsche si mette in luce che l’uomo è un essere multiforme in cui trovano espressione diverse psicologie[3]. E il risentimento diventa espressione fondamentale di uno di questi tipi psicologici: è l’impiegato che si descrive all’inizio delle Memorie del sottosuolo  di Dostojewskij: «Io sono un uomo malato .... Io sono un uomo malvagio. Un uomo ripugnante». Un impiegato che non riuscendo a vivere provava una delizia incolmabile quando riusciva ad amareggiare anche gli altri, magari per qualche ridicola sciocchezza. Ma che non era riuscito neppure a diventare veramente cattivo: né cattivo né buono, né furfante né insetto: «Ma sapete signori in che cosa consisteva il nocciolo della mia malvagità? Tutta la faccenda consisteva nel fatto, e in ciò stava anche la massima nefandezza, che ogni minuto, e perfino all’apice di un attacco biliare avevo l’intima deprecabile consapevolezza che io in verità non solo non ero cattivo ma neppure un uomo incattivito: semplicemente spaventavo i passeri senza ragione, e ne godevo. Posso avere anche la schiuma alla bocca, ma portatemi una qualsiasi bambolina o datemi una tazza di te con uno zuccherino e io mi calmo subito»[4].
Accanto alla psicologia del risentimento Nietzsche individua anche una psicologia dell’eccedenza: quella che esprime la parte migliore dell’uomo che ama la vita e che lo spinge all’autosuperamento. Ebbene risentimento,eccedenza e autosuperamento costituiscono i motivi fondamentali dell’antropologia filosofica di Max Scheler. Innanzitutto sarebbe riduttivo e fondamentalmente scorretto interpretarla come una sorta di reazione anacronistica ed emotiva al presunto assedio della scienza moderna nei confronti della “cittadella dell’essenza umana”. La scienza stessa, estendendo il suo dominio, aveva dovuto superare molteplici unilateralità iniziali ed era riuscita a passare dall’indagine del corpo fisico a quella del fenomeno vivente solo andando oltre l’iniziale impostazione  meccanicistica. D’altra parte la direzione in cui muove il tentativo di Scheler è, per usare un’espressione di Prigogine, quella di una «nuova alleanza» fra scienza, teologia e filosofia, un’alleanza possibile solo attraverso una messa in discussione dello statuto e dei presupposti che queste tre forme del sapere avevano assunto nel corso dell’Ottocento. Ma l’antropologia filosofica di Max Scheler non è neppure un’espressione di psicologismo ancorata ad una qualche forma di filosofia del soggetto, come invece pensarono Husserl e Heidegger[5].
Che il tema nietzschiano del risentimento sia centrale nella riflessione di Scheler risulta da tempo risaputo[6]. Già Troeltsch a questo proposito aveva soprannominato Scheler il «Nietzsche cattolico»: Scheler infatti nel suo celebre saggio Sul risentimento tentava di rivedere a favore del cristianesimo il ragionamento di Nietzsche: non l’uomo cristiano, bensì l’uomo della modernità, che mette al primo posto il valore dell’utile economico, è l’uomo risentito che, odiando la vita, ha capovolto l’originaria tavola dei valori morali. Ma l’influsso è ben più ampio. Da Nietzsche Scheler riprende la consapevolezza che l’uomo non sia un sistema concluso, come anche l’esigenza di ricercare un’immagine unitaria dell’uomo a partire dal futuro, premesse indispensabili alla tesi dell’uomo-complessivo (Allmensch): «E allora [Nietzsche] afferma: ciò che può ridare l’unità che è andata persa, ciò può essere posto solo nel futuro: nell’unità di un fine comune, in un compito da porre di questo essenza naturale variopinta» (GW XII, 49-50). Per Nietzsche – osserva sempre Scheler – l’essenza dell’uomo non è un’essenza consegnata al passato, infatti in lui «l’uomo risulta una unità solo come schizzo e materiale per la formazione dell’oltreuomo» (GW XII, 50). Ma venendo a mancare un paradigma già definito entra in crisi anche l’Umanesimo: «L’uomo essenzialmente non è in nessun modo una cosa o un oggetto, non è nulla di stabile, di fisso - così come presuppone “l’Umanesimo” antico, razionale e classico, che isola l’uomo sia nei confronti della natura come del fondamento mondano e lo pensa fideisticamente – l’uomo è piuttosto solo il concetto della direzione di un’azione e di un moto» (GW XII, 93). L’uomo «non è un essere statico, un fatto, ma solo la direzione di un processo possibile e contemporaneamente, per l’uomo naturale, un compito eterno» (GW IX, 97).
L’importanza di Nietzsche consiste essenzialmente nel tentativo di dare una risposta nuova al frantumarsi delle concezioni dominanti sull’uomo: «ora bisogna porre un fine per l’uomo, un fine per l’umanità [...] Ora tale fine non viene posto attraverso un Dio, né attraverso una direzione necessaria dell’evoluzione: l’uomo diventa libero solo attraverso la propria volontà» (GW XII, 48). Per molto tempo la concezione di origine teologica dell’uomo aveva riflesso l’idea di un Dio teistico inteso come puro spirito onnipotente. Invece con [Ivn1] l’annuncio di Nietzsche «senso e legittimità di questo concetto vengono completamente frantumati» (cfr. GW XII, 49). Prima ancora la rivoluzione evoluzionista aveva segnato una delle tappe culminanti di un processo che aveva gradualmente portato la scienza moderna ad occuparsi del moto degli astri e dei corpi, della chimica, e poi dell’«elettricità animale» e del fenomeno vitale nel suo complesso fino ad affrontare l’enigma dell’uomo stesso: il suo cervello, la sua psicologia, il suo inconscio, il suo comportamento, ecc.. Un’avanzata che mise profondamente in crisi molte certezze filosofiche e teologiche.
Il clima culturale d’incertezza da cui prese le mosse l’antropologia filosofica è ben testimoniato all’inizio di La posizione dell’uomo nel cosmo. Qui Scheler afferma che se si fosse chiesto, alla fine degli anni Venti, ad un europeo dotato di buona cultura che cosa avesse intenso con «uomo» probabilmente nella sua mente si sarebbero fronteggiate tre concezioni insolubili: quella teologica di origine giudaico-cristiana, relativa al peccato originale e al Dio inteso come spirito onnipotente, quella filosofica di origine greca che cerca di interpretare l’uomo attraverso un concetto predeterminato e astratto di «ragione» o «mente», e infine quella più recente, di impostazione evoluzionistica, elaborata dalle scienze naturali e dalla psicologia. Si tratta di tre concezioni in contrasto fra di loro, anzi di tre vere e proprie antropologie irriducibili.
L’uomo che descrive Scheler è prima di tutto un uomo che non ha più un’idea immediata di sé: mai l’uomo risultò tanto enigmatico a se stesso e in nessuna epoca le vedute circa la sua essenza e origine furono più incerte, più indefinite e molteplici. Eppure questo non viene assunto come un dato negativo, ma visto piuttosto come un’importante occasione: «nell’istante in cui l’uomo s’è reso conto di esser sprovvisto di un sapere definitivo su se stesso, e contemporaneamente di non esser più intimorito da nessuna possibile risposta a tale interrogativo, in quel preciso istante sembra che gli sia risorto ilcoraggio della verità: il coraggio di porsi questa domanda essenziale conservandone tutta la problematicità e senza (come invece finora è sempre avvenuto del tutto o in parte) ricondurla immediatamente ad una qualche tradizione teologica, filosofica o scientifica» (GW IX, 10). 

2.    Nietzsche e l’evoluzionismo

 Secondo Scheler Nietzsche, benché non fosse particolarmente portato per le scienze biologiche, riuscì a sviluppare una serie di importanti osservazioni sull’evoluzionismo (cfr. GW III 315)[7]. In particolare insistendo sulla necessità di superare un concetto meramente  passivo di adattamento ambientale pose le basi per l’idea di uomo come essere eccedente, un concetto che avrà un influsso nevralgico sull’antropologia filosofica di  Scheler, Seidel, Alsberg e Gehlen.
Com’è noto le implicazioni teologiche e filosofiche suscitate dall’evoluzionismo furono enormi e accesero roventi controversie. Oggi, a distanza di tempo, questa contrapposizione risulta più sfumata e articolata: da un lato certe semplificazioni dell’evoluzionismo sono state superate, dall’altro non sono mancati pensatori, come Teilhard de Chardin, che hanno tentato di utilizzare categorie dell’evoluzionismo anche in ambito teologico e in filosofia. Il contrasto poi non riguarda più la tesi dell’invariabilità delle specie e dell’uomo (tesi oggi difficilmente sostenibile sul piano scientifico), ma altre questioni, come ad es. quella della presenza o meno di un’intelligenza animale, ma anche a questo proposito è difficile tracciare delle chiare contrapposizioni e. si può ricordare che proprio nel cristianesimo di S. Francesco è presente un grandioso ripensamento del rapporto fra l’uomo e il resto del mondo vivente.
Se Lamarck – nella Filosofia zoologica – aveva enunciato il principio rivoluzionario secondo cui le specie si trasformano e non sono state create così come le conosciamo oggi, Darwin – in L’origine della specie – aveva interpretato l’evoluzione come il risultato della lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale. Infine con L’origine dell’uomo (1871) – preceduta dall’opera di Thomas Huxley, Il posto dell’uomo nella natura (1863) – Darwin aveva enunciato la famosa tesi secondo cui l’uomo stesso, come tutte le altre specie, è disceso da una qualche forma preesistente. L’evoluzionismo, introducendo con il concetto di selezione naturale un fattore di causalità, intaccava così il finalismo tradizionale e soprattutto la teoria secondo cui il perfetto adattamento degli organismi viventi al loro ambiente sarebbe stato predeterminato direttamente dal creatore; esso collocava inoltre l’uomo all’interno della natura, ponendolo in un rapporto di diretta discendenza dall’animale.
Nietzsche, pur non rifiutando l’evoluzionismo e la possibilità che l’uomo discenda da una specie preesistente, non può tuttavia esser considerato un seguace di Darwin, e in particolare sarebbe riduttivo cercare di leggere la sua teoria della volontà di potenza in termini di selezione naturale del più forte[8]. Del resto la conoscenza che Nietzsche aveva di Darwin e dell’evoluzionismo non era esente da fraintendimenti e da semplificazioni (come quando interpreta Darwin nel senso del finalismo o lo connette a Hegel)[9] e spesso le sue critiche sembrano in realtà indirizzate a Spencer e ancora di più a quello che si potrebbe chiamare il «darwinismo sociale». Nel Crepuscolo degli idoli gli attacchi sono indirizzati alla «scuola di Darwin» e il problema centrale riguarda in realtà l’applicazione della legge della selezione in ambito sociale.  A me – nota Nietzsche a proposito della selezione (sociale) del migliore – sembra verificarsi proprio il contrario, e cioè la selezione a favore del più mediocre, l’emergere e l’imporsi sulle masse del tipo inferiore (cfr. KSA VI, 120). È su queste linee del resto che Nietzsche sviluppa anche la sua famosa teoria del risentimento. Se la teoria della selezione funziona nella natura il problema del darwinismo sociale è stato quello di non aver fatto i conti con l’intelletto: «come si può essere così ciechi – si scandalizza ancora Nietzsche in un frammento del 1888 titolato Anti-Darwin – e proprio qui vedere in modo distorto? [...] Quello che vedo io è che gl’inferiori s’impongono continuamente grazie al numero, al calcolo e alla furbizia» (KSA XIII, 304). Nella società umana la lotta per l’esistenza invece di portare al progresso sociale si rovescia nel suo contrario e il motivo risiede nel fatto che il migliore scendendo a valle scopre di essere il più vulnerabile. La selezione non funziona a favore dei migliori e delle eccezioni perché la volontà di potenza dei migliori è più debole e fragile di quella di una maggioranza compattata dal risentimento e dalla paura: «i più forti e felici sono i più deboli quando hanno contro l’istinto organizzato del gregge, la paura degli schiavi, la superiorità numerica» (KSA XIII, 303). Per questo la vittoria dell’uomo risentito rappresenta una in-voluzione: l’uomo risentito esprime una volontà di potenza che odia la vita perché è profondamente incapace e inadatto a vivere. Proprio qui occorre allora compiere un rovesciamento, che si delinea chiaramente a partire dal 1882, e confessare quello che Spencer non aveva avuto il coraggio di affermare e cioè che l’uomo da un punto di vista strettamente organico non è il vertice dell’evoluzione, ma semmai l’animale malato per eccellenza.
La questione centrale nel confronto con l’evoluzionismo è quella relativa all’interpretazione del concetto di «adattamento». L’evoluzione si realizza quando interviene un mutamento ambientale che costringe la vita ad inventare nuove soluzioni ed è questa capacità creativa della vita ad essere propriamente la molla dell’evoluzione. Darwin nota che la gara per la sopravvivenza non viene vinta dal più forte o dal più intelligente, ma da chi riesce ad adattarsi meglio e più in fretta ai cambiamenti. In Nietzsche tuttavia questa capacità di adattarsi alle modifiche ambientali assume un senso diverso in quanto viene ad indicare una forza creativa interna alla vita che esprime al meglio la propria potenza solo eccedendo la logica del puro adattamento e rovesciandosi nella trasformazione attiva del proprio ambiente. Secondo Nietzsche Darwin rimarrebbe invece troppo attento all’influsso dell’ambiente esterno sulla specie, sottovalutando il processo opposto, e cioè i tentativi di trasformare l’ambiente esterno da parte di alcune specie. Ancora più chiara è la distanza da Spencer, criticato nella Genealogia della morale per aver concepito la vita «come un costante adattamento interiore alle condizioni esterne» (KSA V, 316). L’evoluzionismo criticato da Nietzsche fraintende allora l’essenza della vita nella misura in cui la identifica con una volontà reattiva laddove occorrerebbe esaltare la prevalenza di forze spontanee e creatrici. Ma se la vita è capace di questo è perché essa risulta in grado di eccedere il principio di economia e dell’utile. La capacità di trasformare attivamente l’ambiente esterno trova nell’uomo la sua espressione più eclatante, ma proprio l’uomo dal punto di vista del mero adattamento passivo risulta invece l’animale più inadatto tanto da apparire un vicolo cieco, una deviazione: un animale che deve sopperire alla mancanza di armi naturali, di zanne e artigli, con l’intelligenza e l’astuzia.
Il problema dell’eccedenza della volontà di potenza sulla vita, sulle funzioni organiche, sull’utile, sul piacere, ecc. può essere compreso solo tenendo presente il dato di partenza e cioè che l’organismo per Nietzsche è un prodotto della volontà di potenza, per questo essa eccede il vitale: non in quanto è dopo o al di là, ma in quanto fonda la vita[10] 

3.    Eccedenza ed intelletto

 Il tema dell’uomo come animale malato, il ruolo e il valore dell’intelligenza e il significato dell’eccedenza sono temi centrali per l’antropologia filosofica del Novecento e occasionarono importanti aporie e contrapposizioni. Uno dei nodi nevralgici fu proprio quello relativo alla determinazione del rapporto fra eccedenza e intelligenza: tale eccedenza, costitutiva dell’uomo, tende ad identificarsi con l’intelligenza oppure rinvia ad un mondo ideale e ultraterreno? Scheler nega ambedue le soluzioni in quanto interpreta l’eccedenza come la forma di ex-centricità nei confronti della rilevanza organica: essa indica l’azione del campo gravitazionale di una nuova classe di valori che consente all’uomo di guardare il mondo con uno sguardo nuovo, cioè di «aprirsi al mondo». Lo sguardo dell’uomo eccede la visuale dell’animale in quanto l’animale vede il mondo che lo circonda in termini di utile e dannoso. L’animale ad es. cerca l’appagamento ad un bisogno nella causa dello stimolo e vede in questa causa il riflesso di un proprio impulso, l’uomo invece è in grado di trovare appagamento anche nella visione: mentre l’animale reagisce in base all’istinto, l’uomo riesce a posticipare nel futuro la reazione e passa dall’appagamento immediato al godimento della percezione dell’immagine e questo grazie ad un moto erotico-agapico, il solo capace di spalancare violentemente l’orizzonte percettivo, e che viene considerato da Scheler come l’essenza ultima dell’eccedenza. L’uomo vive una situazione di eccedenza nel senso che il suo orizzonte percettivo eccede quello dell’animale: è in grado di percepire segni e contenuti che risultano organicamente irrilevanti e quindiinvisibili alla prospettiva percettiva dell’animale. È eccedente rispetto all’animale come una melodia può esserlo nei confronti dei suoni, o come la parola nei confronti di un’espressione di dolore o piacere. Ma tale eccedenza non implica una fuga in un ultraterreno in quanto si apre ad una dimensione particolare dell’esperienza terrena. 
Da questa prospettiva si distingue quella che identifica tale eccedenza con l’intelligenza, considerandola una «deviazione» dalla logica vitale, sia in senso positivo, e cioè come il risultato di una variazione accidentale e fortunata: unosbilanciamento (è in questo senso che Plessner reinterpreta il termine scheleriano «ex-centrico») o una sporgenza artificiale compensativa che l’uomo, l’essere carente per eccellenza, ha dovuto erigere sulla vita per poter sopravvivere (tesi sviluppata ad es. da Seidel e poi da  Gehlen); sia in senso negativo, e cioè come una degenerazione, un “bubbone” o una malattia che ha colpito l’uomo  (ad es. Klages). Nel primo caso, quello di Plessner e Gehlen, si è costretti a porre al centro dell’antropologia il problema dell’intelligenza umana, tanto che per Gehlen l’essenza dell’uomo consiste nella capacità di costruirsi un ambiente artificiale, e quindi di modificare, attraverso la tecnica e l’intelligenza, il mondo circostante. Nel secondo caso si arriva invece a quel moto di reazione critico nei confronti della tecnica, divenuto influente  in Germania nel primo dopoguerra e che troverà poi espressione nella famosa critica di Heidegger e di Schmitt al concetto di valore e di livellamento.
Scheler rimane distante da queste posizioni in quanto se da un lato non attribuisce all’intelletto e alla tecnica, in sé, una natura negativa o addirittura demoniaca, dall’altro non ritiene che l’intelligenza costituisca un patrimonio esclusivo dell’uomo, e in tal modo si rifiuta di identificare l’eccedenza con l’intelligenza in quanto è l’uomo che fa assumere all’intelligenza un carattere particolarmente complesso e non l’intelligenza che distingue l’uomo. Del resto Nietzsche stesso a proposito dell’adattamento attivo si muove in una direzione diversa da quella assunta successivamente da Gehlen: la trasformazione dell’ambiente non è infatti il fine della volontà di potenza, ma una «meccanizzazione» dell’umanità, cioè un presupposto per l’esistenza materiale sulla cui base l’uomo deve poi mirare a costruire qualcosa di superiore. Nella seconda parte della Genealogia della morale Nietzsche ribadisce che se il concetto di utilità può servire a capire il funzionamento di un organismo biologico o di un organismo sociale, non è però sufficiente a spiegarne l’origine, offre cioè al massimo solo una spiegazione euristica[11].  La civilizzazione – e il processo di disciplinamento in esso presupposto – rimane una sorta di addomesticamento dell’uomo: vedere in essa un fine ultimo e un valore in sé, che appartiene invece alla volontà di potenza attiva, significa aprire le porte ad un processo di decadenza in cui prevale infine l’uomo mediocre. L’uomo che usa l’«istituzione» come strumento di sopravvivenza è l’«animale malato», un uomo da condannare: è l’ultimo uomo, il filisteo della natura, l’uomo addomesticato.
Il problema di Nietzsche non è: «come fa l’uomo a sopravvivere?»; non è il problema (che diventerà centrale in Th. Lessing, Seidel e Gehlen) di definire l’uomo a partire dal processo di civilizzazione. Tutte quelle antropologie filosofiche che mirano a spiegare il problema della sopravvivenza dell’uomo a causa del suo deficit biologico, sono le antropologia della volontà di potenza reattiva.   

4.    Volontà di morte  e volontà di nascita

 Già da tempo è entrata in crisi la tesi di Heidegger secondo cui «la volontà di potenza è la soggettività incondizionata», lo strumento con cui la filosofia del soggetto si caratterizza come «pensare per valori»[12]. Ma come ha da essere inteso questo andare «al di là del soggetto»?
Anche la stessa relazione fra volontà di potenza e valore va forse ripensata al di fuori della filosofia del soggetto. Prestando attenzione al fatto che Nietzsche distingue una pluralità di volontà di potenze, e una pluralità dei gradi della potenza, cioè una Machtordnung, la tesi che la volontà di potenza determini la tavola dei valori può essere intesa non nel senso che quest’ultima sia il risultato di un atto meramente arbitrario del soggetto, quanto che ogni classe di valore sia l’espressione oggettiva di un certo grado della volontà di potenza, perché se è vero che non ci sono valori in sé, è anche vero che per Nietzsche i gradi della volontà di potenza sono i valori stessi. Nietzsche definisce «l’uomo come una pluralità di “volontà di potenze”: ciascuna con una molteplicità di forme e mezzi di espressione» (KSA XII, 25). In linea con questa pluralità viene sviluppata la tesi che dalla volontà di potenza di tipo reattivo, ancora affaccendata al rafforzamento, sia da distinguere nettamente una volontà di potenza attiva. Se l’obiettivo della volontà di potenza passiva è rivolto all’autoaffermazione, quello della volontà di potenza attiva mira piuttosto ad andare oltre il soggetto come mera Selbstbestimmung. E questa lotta per l’autosuperamento non viene concepita nel senso di un «libero arbitrio» del soggetto, che anzi in saggi come Il viandante e la sua ombra la «libertà del volere» viene radicalmente messa in discussione (cfr. KSA II, 545). Qui non ci troviamo di fronte ad una volontà di potenza decisionista che comanda di raggiungere un obiettivo predeterminato, quanto piuttosto ad un moto che rinuncia al finalismo e all’intenzionalità del soggetto mirando a lasciar affiorare qualcosa che non è sotto il proprio controllo. Semmai la volontà di potenza attiva non mira alla libertà quanto è la libertà stessa (intesa quindi non in senso cartesiano ma semmai spinoziano) e il sentimento della libertà sorge solo là dove lo stesso agire non si risolve nel fine da raggiungere, ma diventa piuttosto creatività, in quanto solo nel creare c’è libertà.
Come il valore non risulta il prodotto di un libero arbitrio, bensì l’espressione del grado della potenza, altrettanto la libertà non consegue dalla libertà di scelta ma da un potenziamento esistenziale di tipo creativo, è ciò che consente un’eccedenza di potenza: «dove noi sentiamo di fare qualcosa con un’eccedenza di forza, là noi ci sentiamo liberi» (KSA IX, 60). La volontà di potenza attiva implica i concetti dello «über sich hinaus», della «Zeugung» e della «Liebe». La volontà di potenza più pura, nello Zarathustra, è descritta come «volontà di amare», come «volontà di generare» oltre se stessi, non nella prospettiva di una mera autoaffermazione, bensì in quella del proprio «tramonto»: «Dov’è innocenza? Dove c’è volontà di generare. E chi vuol creare al di là di se stesso, ha per me la volontà più pura. Dov’è la bellezza? Dove io devo volere con tutta la volontà; dove io voglio amare e tramontare, affinché un’immagine non rimanga solo immagine. Amare e tramontare: due cose che si fondono insieme dall’eternità. Volontà di amare: questo significa essere disposti per la morte» (KSA IV, 157) .
L’amare di cui qui si parla è qualcosa di diverso dal tanto criticato «amore cristiano», che Nietzsche identifica con la Selbstliebe e pone invece a fondamento del risentimento.  In Schopenhauer come educatore Nietzsche individua un amare inteso come spinta propulsiva dello «über sich hinaus»: «solo nell’amare l’animo guadagna non solo lo sguardo chiaro, dissipante e incurante di se stesso, ma anche quell’impulso a guardare über sich hinaus e a cercare con tutte le forze un sé superiore ancora nascosto da qualche parte» (KSA I, 385). Wille zur Macht si esprime come Wille zum Lieben, ma questo propriamente è Wille zur Zeugung. La volontà di potenza attiva presuppone un’eccedenza di amare nei confronti dell’«amare cristiano», un rovesciamento della Selbstliebe nell’atto creativo, quello che si esprime canonicamente nell’opera d’arte[13]. Ma rinvia anche alla condizione dellagravidanza, legata all’essenza del dionisiaco: è nello spirito dionisiaco che prevale infatti la volontà di potenza attiva intesa come «Wille zur Zeugung», tanto che nel Crepuscolo degli idoli si legge: «affinché possa esserci l’eterno piacere del creare e si possa affermare eternamente la volontà di vivere deve esserci eternamente anche il “travaglio della partoriente” [...] Tutto questo significa la parola Dionisio» (KSA VI, 159).
Nel richiamo allo spirito dionisiaco emerge una differenza rilevante nei confronti delle soluzioni dell’ideale ascetico: la volontà di potenza dello «über sich hinaus» non è una filosofia della morte quanto una filosofia della nascita e un’esaltazione dell’atto generativo per eccellenza: il parto. Che però non sia facile determinare la posizione di Nietzsche su questo punto risulta chiaro anche considerando la sua posizione nei confronti della teoria del conatus di Spinoza, un filosofo noto per la sua opposizione alle varie filosofie dell’amor mortis. Il problema che pone Nietzsche non è secondario, ed è piuttosto antico: la vera nascita implica travaglio e in un certo senso morte e distacco. Ad un certo punto il rafforzamento esistenziale diviene così radicale da mettere in discussione e portare al superamento stesso del soggetto di tale rafforzamento, tanto che l’uomo per «rafforzarsi» ulteriormente deve infine negarsi per trasformarsi in qualcos’altro. Già Zarathustra ammonisce l’uomo dicendogli che la cosa più pericolosa per lui è proprio la volontà di vivere creativa, questa è pericolosa perché implica l’autosuperamento[14]. L’uomo a forza di rafforzarsi deve far morire l’uomo per poter far nascere l’oltreuomo: è in questo senso che la filosofia della morte viene rovesciata in una filosofia del parto. Del resto la morte per Nietzsche non è qualcosa che rimane esterno alla vita: vita e morte rimangono comprensibili solo l’uno in relazione all’altro e il senso della vita si manifesta solo di fronte alla morte (cfr. KSA VIII, 165-166). La morte elimina il meno vitale in ciò che appartiene alla vita, per far spazio al più vitale: è in questo senso che diventa la misura della volontà di potenza, il presupposto dell’atto generativo. In altri termini se il processo di incremento della volontà di potenza passa attraverso la “morte”, esso non può essere inteso come semplice conferma di tutto ciò che esiste, ma implica necessariamente la messa in discussione di qualcosa, la ricerca di uno spazio da conquistare e che possa aprirsi al nuovo. Il problema diventa quello di una volontà di potenza che mira a superare se stessa e ad aprirsi al nuovo in quanto sente di eccedere il mero esistente. Semmai è la volontà di potenza passiva a perpetuare il progetto di un mero ampliamento dei domini del soggetto: nella volontà di potenza attiva è implicito un mettersi in discussione e un porsi al di fuori di sé. 

L’oltreuomo come critica alla modernità

In Ecce Homo l’oltreuomo non è concepito come l’uomo della modernità, al contrario viene posto «in contrasto con gli uomini “moderni”, con gli uomini “buoni”, con i cristiani e gli altri nichilisti» (KSA VI, 300); altrettanto il moto dello «über sich hinaus» è qualcosa che va oltre la modernità e l’emancipazione dai bisogni, in quanto è il moto che caratterizza l’uomo già emancipato dal bisogno e che eccede il valore dell’utile e dell’adattamento. L’«uomo moderno», che fa coincidere il reale con il razionale, non sfugge alla psicologia dell’ideale ascetico e ripropone sotto altre vesti una volontà di potenza reattiva che finisce con l’animare quel processo di livellamento che agli occhi di Nietzsche suscita il tema del sospetto verso la «Maschinerie». Il risultato del livellamento della società di massa è l’uomo disciplinato dalla civilizzazione, l’uomo allevato dalla psicologia dell’uomo risentito che cerca di autoaffermarsi attraverso le tre grandi rassicurazioni: la teologia, la metafisica e la scienza.
A questo spirito di origine «apollinea», in cui si riconosce la modernità, viene contrapposto lo spirito «dionisiaco» che implica innanzitutto proprio l’eccedenza. E l’eccedenza viene a costituire l’essenza della volontà di potenza attiva: «volere la potenza» indica qualcosa di diverso da un mero e vuoto «volere per il volere», in quanto la volontà di potenza attiva non mira ad una “ripetizione” della potenza stessa, quanto ad una sua eccedenza nel senso di generare qualcosa «über sich hinaus». Ed è sempre nel gesto dell’eccedenza che va ricercata l’essenza dell’uomo: «la nostra essenza consiste nel creare un essere più alto di quello che noi siamo. Creare oltre noi stessi!» (KSA X, 209). È questo ciò che Zarathustra ama dell’uomo: «ciò che v’è di grande nell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è che egli è un passaggio e un tramonto» (KSA IV, 16-17). L’uomo migliore è l’«uomo-superato» (überwundener Mensch), il padre dell’oltreuomo, in quanto nel suo essere un tramonto l’uomo diventa il cammino verso un nuovo mattino.
In tal modo la prospettiva antropologica viene ad assumere un nuovo punto di partenza in quanto il problema non è più quello di definire l’uomo, bensì diventa: «come possiamo superare l’uomo?». In questa tesi vi è la novità di fondo dell’antropologica di Nietzsche: non è possibile definire e comprendere l’uomo in quanto l’uomo non è qualcosa di già concluso o determinato, l’uomo infatti presuppone un’essenza che non esiste ancora e che tuttavia rappresenta il fine della sua esistenza. L’uomo può essere compreso solo a partire dalla direzione verso cui protendono le sue forze migliori.
L’essenza dell’uomo è tutta nel relazionarsi all’oltreuomo, ma questo reintroduce il concetto di eccedenza in quanto l’oltreuomo implica un salto e una differenza ineludibile. Nello Zarathustra il passaggio che permette la nascita dell’oltreuomo non viene descritto in termini di continuità: l’oltreuomo proviene dall’uomo come il «fulmine dalla nube», risulta un’apparizione improvvisa, un dato essenzialmente e irriducibilmente diverso che implica la morte dell’uomo migliore: «Amo tutti coloro che sono come gocce grevi, le quali cadono ad una ad una dalla nuvola scura incombente sugli uomini: essi annunciano l’arrivo del fulmine e, come annunciatori, periscono. Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia greve che cade dalla nuvola: ma questo fulmine si chiama oltreuomo» (KSA IV, 18). E proprio pensando ad una eccedenza forte Nietzsche può porsi al di fuori di una prospettiva finalistica, tanto che occorre interpretare con cautela i passi in cui l’oltreuomo viene indicato come un fine per l’uomo: dal punto di vista dell’uomo rimane un senza senso, una pazzia, appunto un fulmine che scocca all’improvviso. Fra i due rimane lo scarto che c’è fra l’uomo e la scimmia: che cos’è – si chiede Nietzsche nella Prefazione allo Zarathustra – la scimmia per l’uomo? È solo un ludibrio o una vergogna dolorosa, e la stessa cosa è l’uomo per l’oltreuomo. Dal punto di vista dell’uomo l’oltreuomo appare qualcosa d’insensato proprio perché ne rappresenta il superamento e la negazione, è lo über sich hinausche eccede se stesso, la volontà di potenza che annulla se stessa, senza ricadere nel volere per il volere.
Per tutti questi motivi è difficile cogliere il senso ultimo dell’eccedenza.  Tale eccedenza è situata in una zona intermedia che si distingue dalla rilevanza organica ma anche dal mondo ultraterreno proprio dell’ideale ascetico. Implica un andare oltre se stessi ma senza diventare una romantica fuga nella trascendenza. Sicuramente rimane profondamente ancorata allo spirito di gravità, all’empirismo e al corpo e non può essere confusa con una fuga nell’aldilà o in un falso mondo ideale, tuttavia Nietzsche lascia anche intuire che essa non è insensibile all’antico fascino della bellezza: l’eccedenza si situa in una dimensione empirica simile a quella della bellezza, in quanto come questa si sottrae alla necessità e all’utilitarismo. Sempre nel già citato frammento titolato «Anti-Darwin»[15], il bello e il più alto vengono descritti come anche i più fragili. Qual è infatti la caratteristica dello «höherer Typus»? È quella di rappresentare «la forma più ricca e complessa», ma proprio per questo destinata a soccombere rapidamente in contrasto con l’intramontabilità del mediocre. Il più alto è anche il più effimero: difficilmente viene raggiunto e difficilmente riesce a mantenersi in alto; il risultato eccellente, proprio a causa della sua particolarità, non è in grado di moltiplicarsi e rimane un fatto unico; invece ciò che è tipico si riproduce facilmente.
  

Übermensch e Allmensch

 Se in Nietzsche l’oltreuomo è qualcosa che non c’è ancora e che permanearistocraticamente incommensurabile rispetto all’uomo presente, così come il fulmine rispetto alla nuvola, per Scheler invece questa eccedenza è rintracciabile in ogni uomo: non si ha a che fare con un passaggio netto, ma con un processo educativo graduale. L’uomo in Max Scheler deve essere accettato per quello che è già adesso senza farsi illusioni sulla possibilità di far nascere qualcosa di completamente nuovo e perfetto. L’eccedenza lo abita già: l’eccedenza è l’uomo stesso, non qualcosa che ha un fine oltre l’uomo stesso. E dal momento che l’atto di tale eccedenza assume in ogni uomo un carattere peculiare e provvisorio, allora il pericolo, nella storia della presa di coscienza della propria essenza, consiste nell’irrigidire e assolutizzare una qualche forma di tale eccedenza, nel voler ricostruire l’essenza dell’uomo a partire da una sua qualche manifestazione unilaterale. L’essenza dell’uomo è da porre anche per Scheler in un ideale, ma questo è l’Allmensch, l’uomo-complessivo, proprio perché l'uomo rimane un sistema aperto che si palesa come una natura enormemente plastica: «spazio dunque per l'uomo e per il suo movimento infinito per essenza, senza fissarsi su alcun "esempio", su alcuna forma storico-naturale o storico-cosmica» (GW IX, 151). L’uomo per Scheler è essenzialmente la persona,  tanto che qualsiasi essere vivente sensibile al campo gravitazionale dei valori personali dovrebbe essere riconosciuto come un essere umano, indipendentemente dal fatto che sia un mammifero o meno.
Ma proprio perché l’eccedenza viene ripensata come costitutiva di un insieme molteplice dell’esser-uomo, lo Allmensch di Scheler si differenzia dalloÜbermensch anche in un altro senso. Così come la volontà di potenza reattiva, che mira al rafforzamento dell’uomo e alla sua conservazione, sfocia nell’ultimo uomo, altrettanto la volontà di potenza attiva porta l’uomo oltre se stesso facendolo diventare l’alba dell’oltreuomo. Si tratta di due movimenti ben distinti: il primo, presente nelle morali dominanti, si è mantenuto in una prospettiva utile alla conservazione del genere umano, producendo un livellamento (Nivellirung) delle differenze, invece «l’altro movimento, il mio movimento – nota Nietzsche in un frammento del 1883 – mira all’inasprimento di ogni contrasto e frattura,  all’eliminazione dell’uguaglianza [...] Il primo crea l’ultimo uomo, il mio movimento invece l’oltreuomo» (KSA X, 244). L’obiettivo di Nietzsche non è quello di una umanità divisa in schiavi e signori infatti l’oltreuomo deve abbandonare l’umanità e lasciarla al suo destino, deve costituire una comunità separata e senza contatti con l’ultimo uomo: «L’obiettivo non è per nulla quello di considerare questi ultimi come signori dei primi: devono piuttosto sussistere due specie l’una accanto all’altra e separate il più possibile, di modo che gli uni [gli oltreuomini] vivano come Dei epicurei senza occuparsi degli altri» (ibid.).
Si tratta di un’ipotesi estrema, ed è qui che nasce il contrasto con Scheler. È vero che l’uomo non può essere compreso se non a partire da un ideale ma questo ideale è per Scheler lo Allmensch, l’uomo-complessivo, qualcosa che non coincide con l’uomo così come lo conosciamo oggi, ma che tuttavia comprende anche questa espressione dell’esser-umano: «l'ideale per gli uomini – se deve avere un nome – è “l'uomo-complessivo” non il “superuomo”, già pensato ad una distanza separata rispetto alla massa e ad ogni democrazia» (GW IX, 151). Che cosa significa che l’oltreuomo di Nietzsche è pensato a troppa distanza dalla democrazia?
La filosofia, la religione, la politica, e la cultura più in generale, hanno sempre avuto un legame essenziale con la domanda: «che cos’è l’uomo?»; l’antropologia filosofica di Max Scheler nasce come reazione di fronte alla crisi indotta dalla prima guerra mondiale, una crisi che non aveva lasciato in piedi risposte all’altezza dei tempi. Tutto questo ha un risvolto politico, tanto che quando Scheler venne invitato nel 1927 dalla prestigiosa Deutsche Hochschule für Politik di Berlino a tenere una conferenza sulle prospettive politiche della Repubblica di Weimar decide di incentrare la conferenza su di un tema che aveva originariamente sviluppato all’interno dell’antropologia filosofica: quello dell’armonizzazione (Ausgleich). L’antropologia filosofica serve non solo al rinnovamento della riflessione filosofica e religiosa, ma anche come strumento di orientamento nell’analisi della situazione politica.
Occorre innanzitutto storicizzare la domanda «che cos’è l’uomo?» e prendere coscienza delle tendenze di fondo dell’epoca presente, e la fase che si apre con la prima guerra mondiale rappresenta per Scheler una svolta epocale in cui le varie storie locali vengono a confluire in un’unica storia contemporanea, e in cui i nuovi mezzi di comunicazione impongono, per la prima volta nella storia dell’umanità, un confronto serrato fra razze, religioni e culture profondamente diverse. Questo confronto, se le premesse dell’antropologia filosofica sono corrette, non può concludersi con la vittoria di un’identità unica capace di sintetizzare tutte le differenze, e neppure con una divisione nel senso dell’oltreuomo nietzschiano. Il gesto con cui l’uomo eccede la rilevanza dell’utile organico è sempre stato un gesto provvisorio che assume forme sempre nuove, ma finora l’uomo aveva potuto vivere nell’illusione di assolutizzare una definizione parziale dell’uomo. Con la nuova epoca dell’Ausgleich questo non è più possibile, se non al prezzo di andare incontro a sanguinose catastrofi.
Partendo da queste premesse Scheler trae una serie di indicazioni sulla situazione in cui si era venuta a trovare la Repubblica di Weimar. Innanzitutto se l’eccedenza e l’autosuperamento sono aperte ad un numero infinito di soluzioni e non esiste uno Zarathustra che possa accentrare su di sé tutti i lati positivi, allora alla prospettiva di dividere l’umanità in due classi separate viene sostituita quella in cui ciascuna identità, posta di fronte alla necessità storica di un’interazione, riconosca la propria parzialità e si ponga alla ricerca di una compiutezza attraverso il confronto con il diverso. La soluzione proposta da Scheler è quella di ripensare il rapporto nietzschiano oltreuomo-uomo con un occhio alla teoria delle élites di Pareto, rileggendola all’interno dell’antica questione del rapporto fra masse ed élites: la forma politica all’altezza della nuova epoca dell’Ausgleich è una democrazia parlamentare orientata dalle élites e capace di sviluppare un confronto transculturale. La questione centrale diventa quella di opporsi al livellamento della cultura di massa riuscendo a coniugare il tema delle élites con quello della democrazia, infatti «non v'è errore più grande che porre in contrapposizione élites e democrazia [...] come purtroppo vogliono fare gli aspiranti d'una qualche forma di regime dittatoriale. [...] La verità è soltanto che la democrazia disvela impietosamente le opposizioni storiche esistenti in una nazione [...] ma non è lei a produrle. E, nella misura in cui le disvela, essa delinea, in maniera netta e chiara, i compiti futuri che l'élite deve risolvere» (GW IX, 145).
Ma l'élite in grado di dirigere il processo di Ausgleich sarà solo quella capace d'anticipare e sperimentare su se stessa tale Ausgleich, riuscendo a raggiungere «nel suo spirito e nel suo cuore un Ausgleich interiore» (GW IX, 166). Tale l'élite dovrà sperimentare su di sé una forma futura di eccedenza e una forma di integrazione transculturale capace di servire da esempio per la soluzione dei conflitti che si delineano in campo sociale e politico, per questo Scheler osserva che la soluzione da ricercare alla crisi della Repubblica di Weimar consiste in una radicale sostituzione delle vecchie élites fino a quel momento dominanti. La Repubblica di Weimar, profetizza Scheler nel 1927, riuscirà a sbarrare la strada ad una qualche forma dittatoriale solo se avrà la capacità di formare una nuova élite: «Una sola cosa è sicura: essa non potrà essere una semplice élite basata sul sangue e sulla tradizione come la vecchia nobiltà prussiana e la burocrazia ad essa ispirata» (GW IX, 146). Una tale élite sarebbe infatti completamente inadeguata in quanto ancorata ad una mentalità antropologica in contrasto con la tendenza dell'Ausgleich. E a chi vedeva nel mito della razza il motivo ispiratore di questa nuova élite, Scheler replicava: «Chi scorge la salvezza del mondo nella conservazione d'una razza "pura" e a suo avviso "nobile", faccia pure come i "sette fedeli" del conte Gobineau: si ritiri su di un'isola, insieme ai suoi esemplari di razza nobile, e si disperi!» (GW IX, 153).
Per Scheler la caratteristica della nuova élite dovrà essere piuttosto quella di non formarsi in base ad un'unica tradizione, cultura, religione, razza, ma di aver la capacità di guidare il confronto e l’interazione fra queste differenze cercando di orientare i processi che scaturiscono dai conflitti della nuova epoca senza pretendere di imporre un unico punto di vista particolare e accettando la presenza di differenze etniche e culturali. Si tratta tuttavia di una prospettiva debole che infatti, spogliata dai suoi presupposti etici, verrà per certi aspetti ripresa da Leo Strauss, cadendo a sua volta in una visione profondamente pessimista ed esoterica della democrazia. 
 
Note


[1] Abbreviazioni: KSA = F. Nietzsche, Kritische Studienausgabe, hrsg. von  G. Colli und Montinari, Berlin/ New York 1988 (2. Auf.).
GW = M. Scheler, Gesammelte Werke, hrsg. von Maria Scheler und M. S. Frings, Bonn 1957-1998.
[2] Fra la vasta letteratura sull’argomento mi limito a ricordare il noto saggio di W. Müller-Lauter, Nietzsches Lehre vom Willen zur Macht, in: «Nietzsche-Studien» 1974 III, 1-60. Fra quella più recente: G. Abel, Nietzsche: die Dynamik des Willens zur Macht und die ewige Wiederkehr, Berlin /New York, 2 Aufl. 1998; V. Gerhardt, Vom Willen zur Macht: Anthropologie und Metaphysik der Macht am exemplarischen Fall Friedrich Nietzsches, Berlin/ New York 1996.
[3] Sulla questione antropologica in Nietzsche si segnala ancora lo studio di H. Heimsoeth, Zur Anthropologie F. Nietzsches, in: «Blätter für deutsche Philosophie», 1943, 205-239.
[4] Nietzsche lesse la traduzione francese dell’opera di Dostojewskij all’inizio del 1887 e ne fu subito entusiasta. Nel Crepuscolo degli idoli afferma che Dostojewskij «è l’unico psicologo da cui abbia imparato: egli appartiene ai casi più fortunati della mia vita, ancora di più della scoperta di Stendhal» (KSA  VI, 147).
[5] Mi permetto di rinviare a: Katharsis, Napoli 1999. Cfr. inoltre: Le ali dell’eros. Per una riconsiderazione dell’antropologia filosofica di Max Scheler, in: «Annuario Filosofico» 1999, 383-420; L’uomo nella tempesta che è il mondo, saggio introduttivo a: Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (traduzione dall’edizione del 1928), Milano 2000, pp.7-70. 
[6] È sul problema del risentimento che finora si è indirizzato il confronto fra Nietzsche e Scheler, cfr.: F. Bosio, Scheler interprete di Nietzsche, in: «Criterio» 1987, 192-209; E. Haffer, Der Hunaitarismus und der Versuch seiner Überwindung bei Nietzsche, Scheler und Gehlen, Würzburg 1988, 98-169; R. Glauser, Ressentiment et valeurs morales: Max Scheler critique de Nietzsche, in: «Revue de théologie et de philosophie», 1996 III, pp. 209- 228.
[7] Sulla formazione e gli influssi delle scienze naturali su Nietzsche cfr. A. Mittasch,Nietzsche als Naturphilosoph, Stuttgart 1952.
[8] Non mancano tuttavia anche tentativi di avvicinare Nietzsche e Darwin cfr. ad es.: Henke D., Nietzsches Darwinisuskritik aus der sicht gegenwärtiger Evolutionsforschung, in: «Nietzsche-Studien» XIII 1984, 189-210; Stegair W., Darwin, Darwinisus, Nietzsche. Zu Problem der Evolution, in: «Nietzsche-Studien» XVI 1987, 264-287.
[9] Cfr. ad es. il V libro della Gaia scienza dove si afferma: «senza Hegel nessun Darwin» (KSA XI, 442). 
[10] Su questo aspetto cfr. il § 36 di Al di là del bene e del male (KSA, V, 54).
[11] «Anche se si comprende bene l’utilità di un qualsiasi organo fisiologico (come di una istituzione giuridica, di un costume sociale, di una usanza politica, di una forma artistica o di un culto religioso) con questo tuttavia non si è ancora riusciti a spiegarne l’origine» (KSA V, 314). 
[12] Di Heidegger cfr. Nietzsche (Bd. 6.1 e 6.2 della Gesamtausgabe), ma anche le lezioni raccolte nei volumi 43, 44, 47, 48, 50 sempre della Gesamtausgabe.
[13] Così in un frammento dell’estate del 1875 si afferma: «La mia religione, se io posso ancora chiamare qualcosa in questo modo, consiste nel lavoro per la creazione del genio. [...]. Educazione è amore verso ciò che è creato, un’eccedenza di amore oltre la Selbstliebe. Religione è “amare oltre noi stessi”. L’opera d’arte è l’immagine perfetta di un tale amore oltre se stessi» (KSA VIII, 46).
[14] Nel § Von der Selbst-Ueberwindung dello Zarathustra si dice: «Non il fiume è il vostro pericolo e la fine del vostro bene e male, saggissimi, ma quella volontà stessa, la volontà di potenza, la volontà di vivere che genera inesauribilmente» (KSA IV, 147). E sempre su questa connessione fra atto generativo e auto-superamento insiste un brano poco più avanti: «E questo segreto mi confidò la vita stessa: “vedi, disse, io sono ciò che deve sempre autosuperarsi. Certo voi chiamate ciò volontà di generare o spinta verso il fine, verso ciò che è superiore,  più lontano, più molteplice: ma tutto questo è una cosa sola e un solo mistero» (KSA IV, 148).
[15] Cfr. KSA XIII, 315.