domenica 6 ottobre 2013

Che pillola avrebbe scelto Lyotard? Lyotard e la bistecca di Cypher





Che pillola avrebbe scelto Lyotard? Lyotard e la bistecca di Cypher

Lyotard: "Ed ecco la domanda: perché voi, intellettuali politici, vi chinate sul proletariato? [...] Capisco che vi si odi, se si è proletari, non perché siete borghesi, privilegiati dalle mani fini, ma perché non osate dire la sola cosa importante da dire, che si può godere ingollando l’inculata del capitale, i prodotti del capitale, le barre di metallo, i polistireni, i libri, i panini imbottiti, ingollandone tonnellate fino a crepare – e invece di dire questo [...] vi chinate e dite: ah, ma questa è alienazione! non sta bene! aspettate, sta per arrivare la vostra liberazione, stiamo lavorando per liberarvi da questo perfido attaccamento alla servitù, vi restituiremo la dignità. [...] Certo che soffriamo, noi, i capitalizzati, ma questo non vuol dire che non godiamo, né che quello che vorreste offrirci come rimedio [...] non ci disgusti ancora di più: abbiamo orrore della vostra terapeutica"

Cypher: «Io so che questa bistecca non esiste, so che quando la infilerò in bocca Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa... Ma dopo nove anni sai che cosa ho capito? Che l'ignoranza è un bene…»

  

martedì 6 novembre 2012

Convegno "Cura sui e autotrascendimento"


Cura sui e autotrascendimento
La formazione di sé fra antico e post-moderno




Giovedì 22 Novembre

Presiede Mario Lombardo
15.00: Apertura del convegno e saluti delle autorità 
15.30: Luigina Mortari (Università di Verona), ‘Cura sui’ e formazione
16.15: Guido Cusinato (Università Verona),  Il problema dell’orientamento nella società liquida: autotrascendimento e ‘cura sui’

17-17.15 Pausa caffé

Presiede Luigina Mortari
17.15: Elena Pulcini (Università di Firenze), Cura di sé e cura dell’altro
18: discussione

Venerdì  23 Novembre

Presiede Linda Napolitano
9.00: Rocco Ronchi (Università de L’Aquila), Come fondare nella scrittura un luogo comune? La critica platonica della comunicazione.
9.45: Riccardo Panattoni (Università di Verona), Le direzioni di significato antropologiche dell'orizzontalità e della verticalità

10.30-10.45 Pausa caffè

Presiede Ferdinando Marcolungo
10.45:  Alessandro Ialenti (Università di Berlino), Orientamento e sfera affettiva: l’ortonomia del sentire in Franz Brentano
11.30: Lorenzo Bernini (Università di Verona), Pesci rossi, filosofi e acrobazie. L'impossibile morale di Michel Foucault
12.15: discussione

Pausa pranzo

Presiede Mario Longo
15.00: Linda Napolitano (Università di Verona), Eros, cura e felicità. Riflessioni sull'antropologia di Platone
15.45: Fulvia De Luise (Università Trento), Alcibiade e il “morso” di Socrate: un caso di coscienza.

16.30-16.45:  Pausa caffé

Presiede Enrico Berti
16.45: Salvatore Lavecchia (Università di Udine), La cura di sé come ‘agatofanía’. Esperienza del Bene ed autotrascendimento nella filosofia di Platone.
17.30: Milena Bontempi (Università di Padova), Ordine e cura: la legge nella riflessione platonica sul sé
18.15: discussione


Sabato 24 Novembre

Presiede Guido Cusinato
9.00: Holmer Steinfath (Università di Göttingen), Das Gute und das Gute für mich
9.45: Damir Barbaric (Università di Zagabria), Das Entstehen von Allem Der Seelenbegriff bei spätem Platon (‚Nomoi’ X)

10.30-11.00 Pausa caffè

11.00: Christoph Horn (Università di Bonn), Sind personale Autonomie und Authentizität miteinander vereinbar?
11.45: discussione e conclusione

domenica 4 marzo 2012

Presentazione di Manfred Frings al libro Katharsis (1999)

Presentazione di Manfred Frings al libro Katharsis (1999)


È con piacere e allo stesso tempo con un sentimento di riconoscenza che scrivo queste righe per presentare il libro di Guido Cusinato, Katharsis. La morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler.
Negli ultimi tempi il numero delle pubblicazioni sulla filosofia di Max Scheler ha subito un sensibile incremento. I lavori di M. D. Barber, Ph. Blosser, F. Bosio, G. Ferretti, V. Filippone, M. Frings, M. Gabel, W. Henckmann, E. Kelly, A. Lambertino, G. Morra, R. Racinaro, St. F. Schneck, Xiaaogeng Liu e di altri ancora, non meno importanti, hanno promosso una crescente attenzione nei confronti di Max Scheler. A questi studiosi si aggiunge ora Cusinato con un libro stimolante e decisamente innovativo.
L’attuale ripresa di interesse nei confronti di Max Scheler è stata favorita da due condizioni di fondo: a) Solo in tempi recenti i volumi delle sue Gesammelte Werke sono stati pubblicati con una successione più regolare e inoltre solo quest’anno (dopo quarantatré anni di lavoro) la loro edizione è stata condotta a termine; b) Tutta una serie di tendenze e di correnti filosofiche che avevano incontrato ampi favori dopo la fine della seconda guerra mondiale hanno cominciato a recedere dalle posizioni dominanti che avevano raggiunto in tutto il mondo. L’interesse per l’esistenzialismo, la filosofia della scienza, la filosofia analitica, lo strutturalismo, il decostruzionismo, per citarne solo alcune, sembra diminuire mentre quello per Max Scheler si sta diffondendo ulteriormente, anche se lentamente, non solo in Europa (specialmente in Germania e in Italia), ma pure negli Stati Uniti, dove è già presente da una trentina d’anni, e in Asia.
Non è semplice spiegare perché ci sia stato questo graduale cambiamento del clima culturale. Nelle discipline umanistiche ci si è spesso chiesti, senza trovare sempre una risposta, come mai nell’arte, nella letteratura, nell’architettura, si verifichino a volte improvvisi mutamenti di tendenza fino a rivedere giudizi positivi precedentemente espressi. Certe opere d’arte appaiono così improvvisamente obsolete. Chi oggi, fatta eccezione per una minoranza, si dedica alla magnificenza della pittura medioevale? Oppure chi, tranne pochi, legge Milton? Chi trova svago nell’architettura pre-rinascimentale? Qualcosa di simile accadde con Scheler subito dopo la sua morte nel 1928, in un momento cioè in cui era famoso in tutto il mondo. Nel suo caso però è sicuramente individuabile per lo meno un fattore che contribuì non poco a questo cambiamento: l’emarginazione forzata della sua filosofia da parte del regime nazista, fattore che favorì invece altre correnti di pensiero.
Eppure, secondo le testimonianze dei contemporanei, Scheler fu uno dei pensatori più fecondi per la formazione della filosofia del XX secolo. Così Ortega y Gasset parla di lui come della maggiore mente filosofica in Europa. Heidegger riconosce che tutti i maggiori filosofi europei, incluso lui stesso, rimasero influenzati da Scheler. Sartre, dopo aver letto la prima delle maggiori opere di Scheler, il Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913-1916), osservò che per quanto concerne l’etica non rimane altro da fare che «ricominciare tutto da capo».
Molti concetti centrali del pensiero del nostro secolo, di solito associati a nomi di pensatori come Heidegger, Husserl, Max Weber, Merleau-Ponty, ecc., possono essere rintracciati nelle analisi di Max Scheler. Qui basti citare quello di «utilizzabilità» (Zuhandenheit) in Heidegger, o di «mondo vitale» (Lebenswelt) in Husserl, il concetto sociologico di capitalismo in M. Weber e W. Sombart, o di «corpo» (Leib) in Merleau-Ponty per capire come l’originalità di Scheler sia stata sottovalutata o fraintesa per parecchio tempo.
Il libro di Guido Cusinato non solo riesce a mettere in evidenza la molteplice rilevanza della filosofia di Scheler (per es. quando sottolinea la sua influenza sulla Krisis di Husserl), ma illumina anche nuovi aspetti e apre nuove prospettive di indagine. Questo obiettivo viene raggiunto da Cusinato con rigore metodologico e attraverso uno sforzo teso a verificare tutta una serie di affermazioni che erano state fatte finora in modo forse un po’ troppo affrettato. Per es. egli dimostra che tutto sommato Scheler non era né un dualista né un panteista, come invece spesso si è sostenuto (e questo nonostante Scheler stesso si fosse espressamente definito «panenteista»). L’eccellente familiarità con le opere di Scheler in lingua originale, anche quelle degli ultimi volumi delle Gesammelte Werke, consente a Cusinato di offrire al lettore elementi finalmente efficaci per rivedere parecchi luoghi comuni. In particolare Cusinato ritiene importante, se non cruciale, per la comprensione di un pensiero molto complesso come quello di Scheler, mettere da parte quella categoria interpretativa del «dualismo» fra spirito e vita, che così spesso è stata invece applicata alla sua metafisica. Al suo posto Cusinato suggerisce di intendere la concezione scheleriana della relazione fra spirito e vita, o meglio, fra spirito e pulsione (Geist e Drang), facendo ricorso ad un termine che compare negli ultimi scritti: quello di interpenetrazione (Durchdringung). Il concetto di interpenetrazione è del resto già suggerito in Conoscenza e lavoro quando Scheler parla di «interazione», e non di «dualismo», fra lo spirito e le pulsioni umane che hanno origine nel Drang.
Cusinato reinterpreta inoltre la tesi di Scheler, secondo cui lo spirito senza Drang e senza i fattori reali (sociologici) della vita è impotente a produrre qualsiasi realtà, facendo notare che l’impotenza dello spirito non può venir però estesa anche alla sfera della persona. A tale affermazione si potrebbe obiettare: sostenendo che la persona umana e quella di Dio non sono del tutto impotenti Cusinato tenta, andando contro corrente, di tracciare una distinzione, se non una separazione, fra persona e spirito, eppure Scheler non dice che la persona è «forma» di tutto ciò che è spirituale e che non può agire in sé per produrre qualcosa di reale? Qui l’importante è tener presente che il concetto aristotelico di forma attualizzante rimane un concetto estraneo a Scheler.
Il lavoro di Cusinato merita considerazione anche indipendentemente dalle indagini sul pensiero di Scheler in senso stretto. Fra le suggestive analisi che Cusinato svolge su Platone, il Nuovo Testamento, Schelling, Schopenhauer, e su concetti come etica, ego, eros, agape, essere ecc., le più preziose e originali mi sembrano essere quelle relative all’umiltà (Demut). Invece nella maggior parte della letteratura su Scheler l’umiltà, uno dei tre atti morali fondamentali per accedere all’atteggiamento filosofico, non viene neppure menzionata. L’interpretazione che ne dà Cusinato, ponendola a fondamento di una «riduzione catartica» pensata in contrasto con la consueta riduzione husserliana, offre senz’altro spunti promettenti per le indagini future.
Chi leggerà la presente opera ne potrà trarre arricchimento non solo in relazione alla ricerca su Scheler ma anche per quanto concerne la ricerca filosofica in generale.

Albuquerque                                              Manfred S. Frings
New Mexico, Settembre 1998.          (Presidente Onorario della
                                                  Max Scheler-Gesellschaft)

lunedì 20 febbraio 2012

Buddha e la non resistenza al reale nel pensiero di Max Scheler

Nel primo novecento Scheler (1874-1928) fu sicuramente uno dei filosofi più sensibili al contronto fra occidente e oriente. Riprendo qui alcune osservazioni presenti nei miei saggi introduttivi ai seguenti volumi: Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2009; Scheler, Formare l’uomo, Milano 2009.
1) Nel primo brano è molto significativo che Scheler per definire la riduzione fenomenologica e l’atto dell’ideazione non si riferisca a Husserl, come ci si potrebbe aspettare, ma piuttosto a Buddha. Questo mette in evidenza una tesi che ho già sostenuto in Katharsis (1999) e cioè che la riduzione in Scheler non si caratterizza per essere un metodo conoscitivo, ma piuttosto una tecnica di tras-formazione della propria esistenza, di vera e propria rinascita, tecnica che ha alcuni aspetti in comune con le tecniche yoga. C’è inoltre il problema di una possibile convergenza fra diversi concetti di rinascita: quello presente nel dialogo maieutico socratico, nel cristianesimo e infine nella teoria dei “tre sandoku” della filosofia zen giapponese. Ecco il brano:
  >>Volendo chiarire ulteriormente la specificità e la particolarità di ciò che abbiamo chiamato «spirito», sarà meglio riferirsi direttamente a quello che ritengo un tipico atto dello spirito: l’atto ideativo. Si tratta di un atto completamente estraneo ad ogni tipo d’intelligenza tecnica. Un problema proprio dell’intelligenza sarebbe ad es. questo: «Adesso sento un dolore qui al braccio: come è sorto? Come può essere eliminato?». Il compito di rispondere a simili questioni è stato da sempre il compito proprio delle scienze positive. Tuttavia io posso riguardare questo stesso dolore come esempio di quella condizione essenziale, estremamente strana e stupefacente, secondo cui il mondo in generale è contaminato dal dolore, dal male e dalla sofferenza. In questa prospettiva io mi verrei a porre una domanda ben diversa: «Che cos’è propriamente il dolore stesso, prescindendo dal fatto puramente contingente che io ora e qui sento questo determinato dolore? Inoltre come sarà costituito il principio di tutte le cose affinché sia possibile l’esistenza del dolore in generale?». Un esempio grandioso di siffatto atto ideativo viene fornito dal famoso racconto dell’illuminazione di Buddha: dopo che per anni era stato preservato, nella reggia del padre, da ogni tipo di esperienza negativa, il principe uscì dal palazzo e per la prima volta vide, nell’ordine, un povero, unmalato e un morto. Tuttavia egli colse subito in questi tre episodi, contingenti e appartenenti all’ambito spazio-temporalmente determinabile, tre esempi puri capaci di rivelargli un carattere essenziale del mondo. ….. L’animale non può fare nulla di simile. L’ideazione designa dunque la capacità di afferrare le formeessenziali della struttura del mondo partendo da un semplice esempio delle regioni essenziali considerate, e questo indipendentemente dal numero delle osservazioni e delle conclusioni induttive che noi compiamo. …. Se ora vogliamo rivolgerci in modo ancora più approfondito all’essenza dell’uomo, allora dobbiamo considerare la struttura degli atti alla base di tale atto ideativo. Consciamente o inconsciamente l’uomo esegue una tecnica che si può caratterizzare come il tentativo volto a sospendere il carattere di realtà. L’animale vive immerso completamente in quella realtà concreta caratterizzata innanzitutto dall’avere una posizione nello spazio e nel tempo, un qui e ora, e in secondo luogo un’essenza contingente, di quelle cioè ricavabili da un qualche «aspetto» della percezione sensibile. Essere uomo significa invece pronunciare un energico «No» nei confronti della realtà sensibile. Buddha aveva già intuito questo quando diceva che è meraviglioso contemplare qualcosa, ma che è terribile essere qualcosa. Platone aveva già intuito questo quando faceva dipendere la visione delle idee dal rivolgimento dell’anima dal contenuto meramente sensibile delle cose verso un raccoglimento dell’anima in se stessa, in modo da cogliere l’«origine» delle «cose». …… Per comprendere come ha veramente luogo questo atto della riduzione bisogna tuttavia prima sapere in che cosa consiste propriamente la nostra esperienza di realtà. ….. ciò che ci dà l’esistenza è solo l’esperienza della resistenza di una sfera mondana già accessibile, ma tale resistenza si dà solo a partire dalla nostra vita desiderativapulsionale, solo nei confronti del nostro impulso vitale più centrale. Tale esperienza originaria della realtà come esperienza della «resistenza del mondo» precede dunque ogni coscienza, ogni rappresentazione, ogni percezione. ……. Che cosa significa allora questo energico «No» di cui io vado parlando? Che cosa significa propriamente «de-realizzare» il mondo o «ideare» il mondo? Questo non può significare, come invece ipotizza Husserl, sospendere il giudizio di esistenza. Significa piuttosto tentare di sospendere e annichilire il momento stesso della realtà, cioè tentare di sospendere e annichilire l’impressione totale, indivisa e possente della realtà, assieme a tutti i correlati affettivi che l’accompagnano: significa neutralizzare quella «angoscia mondana», che come ha detto profondamente Schiller si «dissolve» solo «in quelle regioni abitate dalle forme pure». Se è vero che l’esistenza è essenzialmente «resistenza», allora l’atto fondamentalmente ascetico della derealizzazione può consistere solo nella sospensione e nella neutralizzazione proprio dell’impulso vitale originario, il solo che risulti in grado di cogliere il mondo come «resistenza» e che risulta altresì la condizione di ogni percezione sensibile della realtà contingente spazio-tem-poralmente determinabile. ….. L’uomo è dunque l’essere vitale che reprimendo e inibendo le proprie tendenze pulsionali – vale a dire negando ad esse l’appagamento, attraverso immagini percettive e rappresentazioni – risulta capace di comportarsi in modoessenzialmente ascetico nei confronti della propria vita, una vita che altrimenti lo soggioga con la violenza dell’angoscia. Paragonato all’animale, che dice sempre di «sì» alla realtà effettuale, anche quando l’aborre e la fugge, l’uomo è «colui che sa dire di no», l’«asceta della vita», l’eterno protestante nei confronti di ogni realtà meramente effettuale. Paragonato all’animale, la cui esistenza è la incarnazione del filisteismo, l’uomo risulta l’eterno «Faust», la bestia cupidissima rerum novarum, incapace di trovare appagamento nella realtà effettuale circostante, e sempre desiderosa di infrangere quei limiti spazio-temporalmente determinati entro cui gli è data l’essenza e l’«ambiente-proprio», e che rappresentano anche i limiti della propria autorealizzazione. ….. Qui s’impone però la questione decisiva: lo spirito nasce attraverso l’ascesi, l’inibizione, la sublimazione oppure si limita piuttosto a riceve da essi solo le proprie energie? A mio avviso l’atto della negazione, quel «No» alla realtà effettuale, non condiziona affatto l’essere dello spirito in sé, ma solo la suadisponibilità di energie e con ciò la sua capacità di manifestarsi. In ultima analisi, come abbiamo già detto, lo spirito è solo un attributo dell’essere stesso, e tale attributo si realizza nell’uomo in una particolare unità della concentrazione: la persona che si «raccoglie» in se stessa. …… Per Buddha il senso ultimo dell’esistenza umana coincide con l’estinguersi del proprio io come soggetto del desiderio, vale a dire nel raggiungimento di un mondo essenziale soltanto intravisto, cioè il Nulla o il Nirwana. Buddha non possiede un’ideapositiva di spirito, né relativamente all’uomo né relativamente al principio cosmico, egli ha riconosciuto molto bene soltanto l’ordine causale con cui, grazie alla tecnica di derealizzazione da attuarsi attraverso una sospensione del desiderio e di ciò che egli chiama «sete», vengono gradualmente superati tutti gli aspetti sensibili dell’essere: le sue qualità, forme, relazioni, come pure la sua spazialità e temporalità<<. (Da: Scheler, La Posizione dell’uomo nel cosmo,Milano 2009).

2) Il secondo brano, sempre da la Posizione dell’uomo nel cosmo, introduce il problema dell’Ausgleich, cioè del confronto fra la cultura occidentale e quella orientale, mettendo in luce due concezioni unilaterali della medicina. Scheler sottolinea come la scienza occidentale miri a dominare il mondo esterno, mentre quella orientale quello interiore (ad es. mediante le tecniche Yoga). Anche per questo la medicina occidentale ha tentato per molto tempo di risolvere il problema della malattia prevalentemente influenzando il corpo dall’esterno, medianti stimoli chimico-fisici e prestando poca attenzione al fattore psicologico:
 >>La circostanza che la scienza occidentale, come scienza naturale e come medicina, si sia dedicata soprattutto alla dimensione corporea dell’uomo, cercando d’influenzare i processi vitali specialmente attraverso un intervento esterno, è solo un segno, fra i tanti, dell’unilateralità degli interessi che dominano la tecnica occidentale. Il fatto che la scienza occidentale e la medicina si siano occupati in prevalenza dell’aspetto corporeo dell’uomo, cercando d’influenzarne i processi vitali attraverso un intervento esterno,evidenzia il fatto che la tecnica occidentale è stata orientata da un interesse del tutto unilaterale. Il fatto che a noi occidentali sembri più facile agire sui processi vitali dall’esterno piuttosto che attraverso un’opera psichica sulla coscienza non deriva necessariamente da un’effettiva separazione fra il piano psichico e fisico, ma si basa piuttosto su di un interesse unilaterale che per secoli ha dominato la medicina occidentaleprova ne sia che la medicina indiana manifesta all’opposto un’impostazione eccessivamente psichica non meno unilaterale<< (Da: Scheler, La Posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2009).
3) Il terzo brano, all’interno della conferenza sull’Ausgleich, si pone invece il problema di un superamento delle unilateralità della cultura occidentale e orientale attraverso un confronto. A mio avviso Ausgleich non va tradotto con “livellamento” in quanto implica al contrario la possibilità di un confronto capace di incrementare e produrre le differenze qualitative. Importante è anche il riferimento al mito di Sri Krishna. La volontà attiva del soggetto è destinata a non sottrarsi alle spire della realtà fattuale. Nell’atteggiamento “eroico” occidentale si cerca di eliminare il dolore in modo attivo dall’esterno (ad es. attraverso farmaci) mentre nell’atteggiamento orientale viene sviluppata maggiormente una tecnica interiore di “sopportazione attiva” del dolore. Per Scheler la prima via è più efficace per superare il dolore fisico (come quando viene anestetizzato) mentre la seconda è più adatta al dolore spirituale. In quest’ultimo caso è implicito un patire che è “attivo” perché fecondo di trasformazioni.
Nel saggio sull’Ausgleich troviamo anche una interessante interpretazione dell'episodio della lotta epica fra il bene e il male e di come il giovane Sri Krishna sia riuscito a liberarsi dalle spire del  serpente Kaliya. Tale vittoria non è conseguita aumentando l'intensità della resistenza alle spire del "mostro-mondo", ma al contrario rinunciando alla lotta e alla resistenza, rarefacendosi completamente fino a divenire imprendibile e a sfuggire così dalle spire del serpente.  L’attività dell’ego deve lasciar il passo alla passività “attiva” della persona che si realizza sottraendosi alla causalità e alla resistenza del mondo fattuale; solo in questo sfuggire alle spire della fattualità il centro personale riesce a risplendere di una nuova logica autonoma e a irradiarla attorno a se nel «non non fiat», gettando esemplarmente orientamento e organizzazione alle energie del mondo.
Ma ecco l’intero brano:
 >>Un altro processo di armonizzazione su vasta scala riguardante la formazione dell’uomo è quello, già da tempo in corso, che coinvolge l’Europa e i tre grandi centri asiatici di India, Cina e Giappone con la mediazione del mondo islamico: si tratta di un’armonizzazione che in futuro progredirà ancora in misura considerevole. ….. l’Europa ha iniziato – parlando per la Germania, a partire da W. v. Humboldt, Schelling e Schopenhauer – ad accogliere sempre più in profondità nel suo corpo spirituale, in misura considerevolmente ampliata e tramite un’infinità di canali, l’antica sapienza dell’Oriente, p. es. l’antichissima tecnica asiatica che insegna l’accettazione della vita e della sofferenza: ed è forse giunto il momento in cui l’Europa potrà attivamente disporre di questa sapienza anche all’interno della sua dimensione vitale. Si sta formando una filosofia mondiale autenticamente cosmopolita – quanto meno si stanno formando le basi per un movimento che vada in questa direzione –, una filosofia che non si limiti a documentare storicamente i sommi principi esistenziali e vitali della filosofia indiana, delle forme religiose buddiste, della sapienza cinese e giapponese, ma che insieme li metta effettivamente alla prova e ne faccia unvivo elemento del proprio pensiero. Senza rinunciare alle forme dello spirito fondate dall’antichità, dal cristianesimo e dalla scienza moderna – ogni volta che si tenta di rinunciarvi si imbocca una strada sbagliata –, l’immagine dell’uomo contemporaneo viene nondimeno modificata sotto aspetti essenziali e in misura considerevole da queste influenze. Anche in questo caso si va delineando un’armonizzazione relativa alle idee dell’uomo e ai modelli che formano l’uomo. Si armonizzeranno anzitutto l’ideale occidentale di fondo dell’“eroe” attivo verso l’esterno e l’ideale diffuso nella maggior parte dell’Asia e manifestatosi nel modo più netto nell’antico buddismo meridionale, vale a dire l’ideale del “saggio” che sopporta, che affronta la sofferenza e il dolore dell’esistenza con l’arte della sopportazione, della “non resistenza” – o meglio della resistenza spirituale alla reazione che si innesca automaticamente ogni volta che proviamo dolore, una reazione spontaneamente diretta verso l’esterno. In linea di principio è parte dell’ambito che riunisce i tratti essenziali dell’uomo la possibilità di rimuovere la sofferenza e il dolore – dai più semplici dolori fisici fino alla più profonda sofferenza della persona spirituale – sia agendo esternamente, con una modificazione degli stimoli esterni che provocano il dolore, sia agendo internamente, rimuovendo la nostra resistenza istintiva allo stimolo, ossia, detto brevemente: ricorrendo all’arte dellasopportazione. …….  a noi occidentali manca del tutto una tecnica sistematica volta al superamento del dolore dall’interno, così come ci manca la credenza in una tale tecnica e in un suo possibile progresso illimitato. Fino a poco tempo fa ci mancava persino una psicotecnica – intesa tanto come psicoterapia sistematica quanto come arte consistente in una tecnica vitale e in una gestione della psiche –, dato che l’epoca passata la escludeva, caratterizzata com’era da una medicina essenzialmente naturalistica che mirava al trattamento di singoli organi e complessi cellulari. Tuttavia, poiché nel processo vitale corpo e psiche sono strutturalmente una cosa sola, il processo vitale nel suo complesso deve essere modificabile in linea di principio su entrambi i versanti, quello fisico e quello psichico; e lo deve essere anche dal punto di vista tecnico, con stimoli fisico-chimici e passando per la coscienza – se e fino a che punto tutto ciò sia già effettivamente praticabile sono problemi della scienza positiva e della tecnica –, non solo nel caso di malattie nervose, ma anche di fronte a patologie organiche e interne dell’organismo.  .....     Finora non ci siamo mai chiesti seriamente se il nostro intero processo occidentale di civilizzazione, un processo così unilateralmente e iperattivamente diretto verso l’esterno, nonpossa  essere inteso alla fine come un tentativo messo in atto con mezzi inadeguati – considerato alla luce del processo storico nella sua interezza – laddove non gli si affianchi l’arte contrapposta, volta all’acquisizione interiore di un potere che governi la nostra intera “vita” psicofisica al di sotto del livello spirituale, dal decorso altrimenti meramente automatico: un’arte consistente nello sprofondare in se stessi, nell’introspezione, nella sopportazione e nella contemplazione delle essenze. Voglio ora prospettare un caso limite: non potrebbe darsi che l’uomo orientato esclusivamente al potere esterno sugli uomini e sulle cose, sulla natura e sul corpo – senza le azioni interiori appena menzionate e il contrappeso che gli verrebbe da una tecnica finalizzata al potere su di sé – finisca in ultimo col raggiungere l’obiettivo opposto a quello desiderato? Non potrebbe accadere che l’uomo sprofondi in un asservimentosempre crescente nei confronti del meccanismo naturale, quel meccanismo che egli per primo aveva intravisto e fatto agire all’interno della natura come campo ideale per disporre attivamente della natura stessa? Bacone ha detto: «naturam nisi parendo vincimus». Ma non vale anche nella stessa misura quanto segue: «naturam paremus, si nil volumus quam naturam vincere»?

Il mito indiano racconta del giovane Dio Krishna, il quale, dopo aver invano combattuto a lungo in un fiume con il serpente del mondo (simbolo del nesso causale) che lo stava avvolgendo, al grido del padre divino che lo invita a ricordarsi della sua natura celeste, si sottrae infine alla stretta nemica del serpente – con la facilità, aggiunge il mito indiano, con cui una donna sfila la mano da un guanto –, adattando ogni parte del suo corpo alle spire del serpente, cedendo loro pienamente. ……. Il contrasto precedentemente accennato tra l’atteggiamento occidentale e quello orientale nei confronti del mondo si manifesta in modo particolare anche nella politica e nella metodologia di questa disciplina, una manifestazione la cui importanza viene di solito notevolmente sottovalutata. Mi riferisco al profondo contrasto tra la “politica del cacciatore” – vale a dire la politica positiva di potenza – e la “politica della preda” – ossia la politica negativa della non-resistenza: quest’ultima si avvale dell’arte di attirare il “cacciatore” in ampie, caotiche e sterminate distese di territorio, nelle quali il cacciatore finisce così facilmente con lo smarrirsi e con lo sbagliare direzione, senza trovare i centri in cui si riuniscono le forze nemiche, attaccando i quali riuscirebbe a scuotere l’intero paese. Il terribile momento nella vita di Napoleone in cui egli si trovò davanti a Mosca data alle fiamme dagli stessi russi, un momento così plasticamente descritto da L. v. Ranke nella sua Rinascita della Prussia, è stato forse solo il primo esempio di un tipo di situazioni che potrebbero ripresentarsi spesso in futuro all’interno del contrasto che vede opporsi la politica positiva di potenza degli stati europei e i regni asiatici con la loro metodologia politica negativa. Oggi questa considerazione vale sia per la politica inglese e le sue opportunità in Cina sia per la [53] politica di non-resistenza degli indù e dei maomettani uniti dal Mahatma Gandhi contro la tirannia inglese in India. Grazie all’assimilazione e alla formazione di una particolare tecnica finalizzata alla sopportazione e alla gestione della sofferenza; grazie alla sua sintesi con la tecnica finalizzata all’acquisizione del potere esteriore che l’Occidente ha già così ampiamente sviluppato, sarà finalmente possibile una trasformazione della cultura conoscitiva generale<<. (Da: Scheler, Formare l’uomo, Milano 2009).